lunedì 4 agosto 2008

La politica s’inchina a sua maestà la menzogna

di Michele Prospero - SD Nazionale

Cosa tiene in piedi le società odierne nelle quali aumentano a vista d’occhio le differenze di potere e di ricchezza e però nessun accenno compare verso un rifiuto collettivo delle nuove forme di dominio? Come mai in un sistema sociale che sforna in continuazione inedite esclusioni e cronicizza la flessibile precarietà dei lavori regna ancora più piatta la sovrastante potenza ordinatrice del capitale? Cosa impedisce la rivolta degli attori sociali in un mondo in cui le vacche del nord guadagnano con i sussidi loro erogati il doppio dei salari dei lavoratori del sud? Queste domande sono al centro del libro di Vladimiro Giacché, La fabbrica del falso, che riflette all’interno di una serrata critica dell’ideologia contemporanea coniugando con finezza una cruda e molto informata descrizione dei processi reali e una sottile ironia.

L’autore, con alle spalle un dottorato di filosofia alla Normale, e un presente nei ruoli direttivi del mondo dell’economia e della finanza, dinanzi ai dilemmi di oggi suggerisce una risposta ai limiti della provocazione teorica. Il nucleo del suo ragionamento è questo: oggi mancano soggetti sociali combattivi perché il grande protagonista del discorso pubblico è diventata la fabbrica del falso. La menzogna con i suoi meccanismi linguistici di occultamento del dato empirico si afferma in ogni ambito del vissuto neutralizzando così i processi reali sempre più relegati su uno sfondo lontano e invisibile. Le parole chiave del lessico contemporaneo rivelano questa perdita di referenzialità che porta alla costruzione di eterei fantasmi che rendono impalpabili gli interessi sociali. Ci sono parole inventate solo per nascondere, altre invece servono per deviare e occultare.

Nel mondo attuale trionfa un aspro e selettivo sistema sociale che però preferisce rimuovere il suo ingombrante e ancora sospetto nome, capitalismo globale, per assumerne uno più mite e in apparenza gradevole, quello di economia di mercato. Il linguaggio tecnico con i suoi eufemismi leggeri contribuisce a fare del mercato proteso alla massimizzazione del profitto una cornice naturale e del tutto astorica. Per esemplificare questa torsione del linguaggio in chiave ideologica, Giacché conta che in un solo giorno la parola mercato compare ben 82 volte sul maggiore quotidiano economico. Persino il Trattato europeo parla per ben 78 volte di mercato, per 27 volte compare in esso la parola concorrenza e una sola volta esce il termine residuale occupazione. E le parole dominanti segnalano un più profondo cambiamento avvenuto nei rapporti sociali. I media rafforzano le potenze egemoni quando diffondono all’unisono una autentica metafisica dell’economia che attribuisce al mercato una ragione assoluta e contorce il senso del reale quando parla con trasporto di «restituzione» al mercato di imprese che però sono sempre state in mani pubbliche.

Oltre a parole che servono per addolcire o per sviare, la fabbrica del falso sforna parole che servono solo per stigmatizzare, per colpire un nemico immaginario per mettere all’erta altri più insidiosi. Giacché rammenta, a questo proposito, una risoluzione del 2006 con la quale il parlamento europeo invita a respingere l’ideologia comunista vista come in sé repressiva. Non se la passano bene al setaccio della repressione linguistica imperante neanche classici come Goethe, Kafka, Dostojevski che sono stati cancellati dai programmi scolastici polacchi perché giudicati immorali, nichilisti, e persino criminali. Il linguaggio serve anche a coniare parole spauracchio e per questo nella repubblica ceca è stata messa fuori legge la gioventù comunista perché nei suoi documenti ufficiali parla ancora di lotta di classe, mentre la costituzione vieta persino l’uso dell’espressione desueta e ormai criminogena. Con locuzioni devianti, con simboli ingannevoli viene coperto il crudo dominio postmoderno che Giacché rende bene con queste cifre: l’1 per cento detiene il 40 per cento del patrimonio finanziario e immobiliare del mondo, il 50 per cento delle popolazione accede solo all’1 per cento della ricchezza planetaria. Inoltre tra i 100 principali soggetti economici mondiali 51 sono imprese, 49 sono i paesi. Su queste basi materiali di dominio, lavora poi un immaginario leggiadro che nega la visibilità mediatica del conflitto e si rifugia in una neolingua del mercato che si autonomizza dalla politica.

La fenomenologia della menzogna prescrive come sua regola aurea che la visibilità stessa del disagio sociale vada sempre rimossa. Giacché ricorda che ad Atene, per i giochi olimpici del 2004, furono deportati 11 mila senzatetto. Negare la tangibilità delle contraddizioni della metropoli è un imperativo supremo per scacciare per sempre i problemi sociali dalla sfera pubblica. Per questo oggi nelle città si vieta l’accattonaggio e il sindaco si veste da sceriffo. In una società della merce, la vista del disagio estremo crea imbarazzo nei consumatori. E perché mai turbare i sensi esteticamente esigenti del consumatore finale con scene imbarazzanti di quotidiana povertà? Per gli ultimi basta la compassione, e la carità può prendere il posto della solidarietà pubblica. Importante è che nessuno pensi di mutare le condizioni sociali di esistenza, o prospetti addirittura strategie per i diritti. Vengono per questo progettate forme di esplicito depistaggio per inculcare in chiunque la paralizzante percezione di vivere insicuri. Lo Stato sociale viene così superato dallo Stato penale che deve inventarsi emergenze e nemici alle porte. Giacché rammenta che sotto Blair non solo si fece ricorso alla schedatura del dna, ma vennero impiantate 4,2 milioni di telecamere spia e inventati 3023 nuovi reati.

Per favorire l’ingresso nello Stato penale emergenziale, la menzogna più grande che viene fabbricata riguarda il lavoro. La sua sconfitta deve essere irreparabile e duratura. Le cifre al riguardo sono quelle che Giacché riporta. Trent’anni fa l’85 per cento della popolazione attiva aveva un lavoro stabile. Nel 2010 un impiego sicuro e protetto toccherà ad appena il 25 per cento. Il lavoro nelle sue retribuzioni non supera spesso la soglia di povertà. Già oggi 3 milioni di lavoratori percepiscono meno di 800 euro al mese e altri 3 milioni sono al di sotto dei mille euro. Esiste una povertà strutturale che nasce dal lavoro, non dalla esclusione dei derelitti. Eppure ciò che la grande officina del falso nasconde è proprio la ragione stessa del conflitto sociale per i diritti e per il salario migliore. In una società che rende ognuno un uomo precario, che può essere acquistato con decine di modalità contrattuali, sembrano sfumare le classi e con esse le ragioni della mobilitazione collettiva. Spesso si riscontra il paradosso, una vera forma di scissione la chiama Giacché, per cui il lavoratore, conferendo i soldi per la sua pensione ad un fondo pensione, si tramuta in investitore che potrebbe, per la sua stessa azienda, decidere delocalizzazioni, licenziamenti. In questi casi - conclude Giacché - non solo il lavoro non pagato origina il plusvalore ma è «il salario differito a trasformarsi immediatamente in capitale».

La immensa fabbrica del falso contribuisce a occultare il dominio reale facendo sì che una grande quantità di soggetti, da ritenersi senz’altro oggettivamente dei proletari postmoderni per reddito e condizione occupazionale, soggettivamente si sentano tutt’altro altro e rifiutino con sdegno ogni identificazione in termini di classe sociale. Interviene qui il miracolo del consumo che, in virtù di una gigantesca macchina mondiale adibita alla produzione illimitata dei desideri, rende tutti cacciatori instancabili di tendenze, sedotti dai messaggi della ricchezza a portata di mano, grazie a bancomat e carte di credito. Quando tutti inseguono la pubblicità per cercare di somigliare ai suoi modelli di consumo, declina ogni responsabilità civica. Compare così una democrazia sfregiata che perde ogni aggancio con l’idea di una eguaglianza da costruire con politiche di inclusione. Quello che continua a portare il nome di democrazia in realtà è sempre più uno stanco rituale con il quale una élite dell’economia e degli affari si lascia legittimare, a scadenze prefissate, dal voto passivo di elettori distratti e disincantati. Tra ingorde oligarchie del denaro e rampanti gestori dei media che si contendono il potere, la libertà torna ad essere una mera appendice della sicurezza e della proprietà che ovunque conquista posti di comando nelle istituzioni.

E che ne è del pensiero critico? La tendenza della società dell’iperconsumo è quella di fare del consumo l’unico collante sociale. Tutto l’agire sociale pare risolversi perciò in una ricerca frenetica di sponsorizzazione e in perenne organizzazione di eventi. Gli stessi luoghi classici di produzione del sapere, le università, entrano nel vortice del consumo e, benché prive di fondi per la ricerca, riescono a spendere per la pubblicità la bellezza di 20 milioni di euro. Come attendibile spirito del tempo Giacché riporta l’esemplare caso della pubblicità dell’Università di Macerata: «Liscia o Gassata? Università di Macerata fonte di cultura, sorgente di professionalità». Tutte le forme di espressione, anche quelle del sapere, assumono ormai i devianti codici espressivi della pubblicità. Depotenziato dalle metafore deformanti della neolingua della merce, il soggetto sociale ancora manca e non si presenta sulla scena pubblica. In attesa che qualcosa sconvolga la seduzione ingannevole della merce, Giacché propone di cominciare assediando intanto il linguaggio per ripulirlo, e per riconsegnare così il reale alla sua durezza espressiva. La filosofia è insomma il proprio tempo negato (per ora) solo con il pensiero.

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