martedì 3 giugno 2008

Cento passi a Sinistra


“Sinistra Democratica sta bene. Ha scelto di non ripiegarsi su se stessa alla ricerca di una identità perduta per tentare di capire cosa è successo a sinistra e nel Paese. Perché non si possono addossare le colpe della sconfitta solo a fattori esterni o al voto utile”. Inizia così la nostra conversazione con Claudio Fava, giornalista, europarlamentare, ora erede di Mussi alla guida della minoranza DS che lasciò il partito l’anno scorso. “C’è un problema di cultura politica del progetto unitario di sinistra. Nella nostra scelta vedi un segnale di salute, di uno stare nelle cose. L’altro elemento positivo è la coesione del gruppo dirigente di SD che ha scelto coralmente di ripensare forme e contenuti della politica e di dare vita a una costituente di sinistra. Andremo alla prima assemblea nazionale senza conte interne. In un contesto di infinita debolezza è un punto di forza”.


Come si spiega lo spostamento a destra del Paese?
Il Paese, e il senso comune, sono cambiati profondamente si è avvitato nella ricerca di nuovi nemici in una cultura della paura diffusa: dalla precarietà all’infelicità, alla paura dell’altro. Questo senso comune malato, e a tratti perverso, è stato gestito e amministrato dalla destra. La vittoria di Berlusconi non è una fase di un bipolarismo imperfetto, è un evento che sancisce l’affermazione di una egemonia culturale. Dobbiamo rileggere ciò che è accaduto nel Paese, capire come modificarne il senso comune, offrendo prospettive e valori di riferimento. La sinistra non può limitarsi a recitare a memoria il copione della propria esistenza, il repertorio delle proprie qualità. Anche sul piano della comunicazione, del linguaggio, dell’alfabeto originario, noi dobbiamo rimetterci in discussione. Abbiamo considerato la nostra forza storica come un conto in banco infinito da cui attingere. E siamo invecchiati rapidamente dando l’impressione di grande staticità, mentre il Paese si muoveva. E’ un Paese che non ti parla di lavoro solo in termini salariali ma anche in termini di precarietà esistenziale. Forse la sinistra doveva misurarsi con il tema più ampio della qualità della vita, e non solo sui temi se pur fondamentali del contratto di lavoro.

E’ una difficoltà a separarsi dal passato?
Ancora oggi c’è chi sostiene che abbiamo perso perché non abbiamo esposto falce e martello. Le nostre identità devono prescindere dal gioco dei simboli e incontrare il Paese reale, i suoi destini veri. In questo noi siamo stati ceto politico, partiti degli eletti, nomenclatura.


Socialismo e comunismo: che ruolo hanno nel dibattito teorico attuale? Sono uno scoglio o una risorsa?
Sono una grande risorsa dell’identità interiore di ognuno di noi, per il repertorio di valori, per lo sguardo che rivolgi verso la società. Stare dentro una cultura di sinistra vuol dire, per esempio, non poter dire sui fatti del Pigneto “sì, bisogna condannarli ma ci sono troppi immigrati”. Avere dentro di sé la cultura dell’altro ti permette di affrontare il tema della sicurezza nella sua complessità senza assecondare il senso comune. Tutto questo non ha bisogno di coniugarsi con l’appartenenza alle sacre famiglie politiche. E’ sintomo di vecchiaia e incapacità non capire che il senso di una identità comunista o socialista prescinde dal fatto che andrai a sedere tra i banchi socialisti o alla GUE nel Parlamento europeo.


La sinistra storicamente ha rappresentato le ragioni del lavoro. Perché oggi il lavoratori non la votano più?
Perché abbiamo continuato a parlare di “lavoro” e non di lavori: dell’operaio metalmeccanico delle fabbriche del nord, del precario a vita delle università del sud, dell’articolista che ha iniziato da precario nel giornale e ora ha moglie e figli e a passato venti anni ad aspettare un posto fisso. I “lavori” mettono insieme una somma di precarietà. Oggi non dobbiamo solo restituirgli potere di acquisto ma potere sui tempi della vita, spesso sottratti e con questi il senso del futuro. Oggi noi perdiamo i lavoratori perché non riusciamo a farli una proposta complessiva. Dobbiamo affrontare il tema del tempo, della qualità della vita, del rapporto con una dimensione umana che è molto più complessa di quella di trenta anni fa.

Le battaglie contro la precarietà la sinistra le ha fatte, tuttavia sembra che la gente pensi: sì hai ragione ma non sarai in grado di fare quello che dici?
Vero, una sinistra che accetta di essere testimoniale e rifiuta il confronto sul tema del governo, e che non attribuisce agli altri la responsabilità di impedire questo confronto, è una sinistra che appare minoritaria, desiderosa di perdere.


Non sarà stato solo un problema di alleanza?
Sul fronte interno abbiamo elaborato il concetto dell’unità ma non ci abbiamo creduto. Su ogni tema ad ogni episodio l’unità si frantumava in comunicati stampa di quattro segreterie. Il processo è apparso sotto stretta sorveglianza dove la cessione di sovranità era minima o nulla.

Nel PD sembra esaurito il sogno o il delirio dell’autosufficienza. Veltroni, forse anche grazie alla pressione di D’Alema sembra voler aprire a sinistra.
Do atto a Veltroni delle sue parole ma attendo i fatti. Mi attenderei, per esempio che il PD si mettesse in discussione. Invece mi sembra che continui a celebrare se stesso. Ha perso clamorosamente le elezioni e pure non vedo ancora nessuna riflessione in materia. Poi aspettiamo di capire che tipo di confronto ha in mente Veltroni. Se avviene su basi di reciproca autonomia bene, altrimenti è solo una forma di cortesia politico istituzionale.

Ci sono chiaramente due strategie diverse nel PD riguardo alla sinistra: una “annessionistica” e una che punta al rafforzamento del percorso unitario per poi confrontarcisi.
La linea “annessionistica” è una idiozia politica. Ammesso che possano convincere qualcuno, come hanno già fatto con Nerozzi e con Vita per esempio, è chiaro che questo non dà più forza al progetto del Pd. Che resta un progetto parziale, di un partito sostanzialmente moderato, con una forte vocazione cattolica e che non può avere la presunzione di rappresentare tutto quello che c’è nel centro sinistra. L’unica possibilità per il PD è di ricostruire un centro sinistra con chiarezza: loro sono il centro e accanto deve esserci una sinistra. Noi di SD poi proveniamo da una esperienza molto dura nei DS. Alla creazione di una sinistra nuova e autonoma abbiamo dedicato parte della nostra “vita”, non una campagna elettorale. Personalmente è dal 2001 che rifiuto il PD, che dopo 7 anni qualcuno si aspetti tardivi pentimenti mi sembra assurdo. Il PD deve archiviare la presunzione del bipartitismo, abbandonare il mito della autosufficienza e possibilmente mettere da parte la pratica antica e malinconica della telefonata al singolo per raccogliere adesione ed irretire. Un dirigente della sinistra che oggi accettasse di passare al PD porterebbe con sé solo la sua faccia e il suo voto ma non sposterebbe una sola virgola del potere di acquisto politico dei democratici.

La sconfitta di Rutelli a Roma è dovuta anche alla impossibilità del candidato per il suo “profilo clericale”, a rappresentare il centro sinistra?
A Roma abbiamo perso perché abbiamo assecondato la presunzione di Rutelli di ricandidarsi. E’ l’idea che si può essere buoni per tutte le stagioni, che il centrosinistra riproduce se stesso, che un signore si può rappresentare a fare il sindaco 10 anni dopo come Prodi con il governo del Paese. Dice alle persone che siamo fermi. Che ci guardiamo compiaciuti allo specchio sorridenti solo che, a differenza di quanto accade nel romanzo di Oscar Wilde le rughe cominciano a incrinare i nostri sorrisi e appariamo perciò che siamo: spesso la caricatura di quello che eravamo. La svolta confessionale di Rutelli era nota a tutti. Dal 1993 ad oggi aveva stretto rapporti personali con le gerarchie della curia, e compiuto una virata profonda sul piano personale e politico. Avrà anche amministrato bene nel passato, ma non si poteva riproporre a prescindere da ciò che era successo nel frattempo. Non sarà un caso che Zingaretti prende più voti.


Rifondazione è fondamentale per la creazione della nuova sinistra. I bertinottiani avevano investito molto sulla scelta di Mussi. Ora il partito va spaccato verso il congresso per scegliere essenzialmente tra due opzioni: Vendola e il rilancio del progetto unitario o Ferrero che punta su comunismo e federazione della sinistra.
Intanto esprimo il massimo rispetto per il dialogo interno di Rifondazione nel quale noi non possiamo assolutamente intervenire come mozione “corsara”. Il nostro progetto non prevede la deriva identitaria, o la costituente comunista, che magari ti permette di avere qualche deputato ma che davvero non parla al Paese. La nostra idea è quella di un cantiere della sinistra che si mette in discussione. Per questo la storia, la pratica e la cultura di Vendola sono molto più vicini al nostro progetto.

Se nessuno dei due ottenesse la maggioranza si concretizzerebbe la possibilità di una scissione in PRC? Cosa cambierebbe per voi?
Io mi auguro solo un processo di verità. Se a sinistra si declineranno due percorsi diversi io non lo considero un dramma. Io mi batterò per una cultura laica, che superi la contrapposizione manichea tra Governo e opposizione. Che si faccia carico della complessità del Paese oggi, senza far riferimento a categorie del secolo scorso. Cosa sarà? Una costituente, un movimento, un partito, un cantiere non importa. Certamente importa che sia un soggetto politico, con un’idea forte. Che è mancata alla Sinistra Arcobaleno. La discriminante non può essere il comunismo ma l’uso che si fa di questa identità: la necessità di esibirla o di tenerla fra le proprie viscere, nella memoria o nella cultura politica. La distinzione non è tra comunisti e non, questa è una semplificazione che lascio a Diliberto. La distinzione è tra chi usa questa identità come una ridotta entro la quale rinchiudersi e chi ritiene di contaminare questa identità con un tempo e un modo profondamente rinnovati. E rinnovati non vuol dire moderati. Credo che in PRC più che scelte di mozioni congressuali ci saranno scelte di percorsi personali ed esistenziali.


Parliamo di Sud, di Sicilia, di criminalità organizzata.
Nel dibattito tra i due partiti maggiori in Parlamento, non una parola è stata detta, a parte le commemorazioni di rito, sul fatto che il vero tema dell’insicurezza in questo Paese, è che in Calabria l’ndrangheta ha ammazzato 270 persone. Che la criminalità organizzata è l’azienda più grande del Paese che vale il 2,9 % del PIL prima in Italia per dipendenti e fatturato. Di fronte a tutto ciò bisogna ricuperare l’urgenza della lotta che non è priorità né del Governo né del PD. Il tema della criminalità organizzata che è divenuta vincente e che controlla l’economia e la società in un terzo del Paese, l’abbiamo celebrato con il culto degli eroi. Con immaginette da mettere sulla spalla una volta l’anno come i santi patroni, per rimetterle subito dopo nel loro sacrario. E invece dovevamo restituire alla gente i segni della “convenienza” di quella battaglia: perché la legalità, il rispetto delle regole, il controllo democratico del territorio sottratto alle cosche è conveniente e migliora la qualità della vita di tutti.

In una intervista a Left Mussi disse: “questo capitalismo è incompatibile con il pianeta Terra.” L’ambientalismo la critica al modello di sviluppo attuale, che ruolo ha per nuova sinistra?
Rimettere in discussione il nostro modello di sviluppo è il progetto più rivoluzionario che si possa immaginare. Un risultato concreto su questo fronte sarebbe immediatamente percepibile dalla gente in termini di qualità della vita. Noi abbiamo cento milioni di poveri che sono emersi da un giorno all’altro per l’aumento dei prezzi alimentari. Non per una carestia ma perché l’economia occidentale e le politiche protezionistiche di USA ed Europa hanno determinato questo processo. Noi possiamo creare 100 milioni di poveri e gettare 41 Paesi sull’orlo della guerra civile con le nostre scelte. Rimettiamo in discussione tutto questo, e con questo i pilastri stessi dell’Unione Europea e gli interessi di centinaia di migliaia di aziende. Se ce la fai determini uno scatto di qualità “umana” nella società che è rivoluzionario.

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