da il manifesto del 4 aprile
Il voto operaio a Torino dopo la tragedia ThyssenKrupp. Confronto a distanza tra Argentino, comunista e «mod», candidato della Sinistra, e Antonio Boccuzzi, candidato a reti unificate da Veltroni. Fiom il primo, Uilm il secondo «In fabbrica c'è delusione per quel che il governo non ha fatto e per quel che ha fatto. Io riesco a parlare con gli operai perché mi riconoscono. Unità a sinistra. Senza forzature»
Loris Campetti
Torino
«Se vado davanti a una fabbrica con i volantini a parlare agli operai non mi fischiano. Perché sono della ThyssenKrupp, mi riconoscono». E' per un sentimento di rispetto e di solidarietà, più che per lo schieramento che l'ha candidato - Sinistra Arcobaleno - che Ciro riesce a fare con successo campagna elettorale nelle fabbriche. Nella sua, quel che ne resta, dopo l'incendio in cui sono morti 7 suoi compagni, al petrolchimico di Gela, alla Fiat di Cassino, a Mirafiori. «Cosa mi resta di quella maledetta notte? Il volto di Antonio, Antonio Schiavone, l'unico amico vero che avessi in fabbrica. Era uno skin ma non di destra, ci capivamo. Aveva due bambini piccoli e una bambina di due mesi. Pensa che anche suo padre era morto sul lavoro». Durante la tragedia, un compagno dopo l'altro che se ne andava, Ciro Argentino ha appreso la notizia che sua moglie aspetta un bambino, il primo: «Pensa come posso essermi sentito, un impasto di gioia e disperazione.
La bandiera rossa sul Cremlino
37 anni, il delegato Fiom più votato dai lavoratori e oggi capolista della Sinistra Arcobaleno alla Camera, Piemonte 1, Ciro non è nuovo alla politica. Non si sente il coniglio (brutta parola per un operaio torinese) tolto dal cilindro per strumentalizzare a fini elettorali i sette operai bruciati, anche se c'è voluto il gesto clamoroso di Diliberto per farlo risalire dalla sesta posizione («che rispettosamente avevo rifiutato») al primo posto. «Forse strumentalizzato all'1%, altri lo sono al 99%», non dice di chi parla ma non ci vuole molto a capirlo. Lui si è fatto la trafila classica, dalla Lega studenti medi della Fgci («all'Ipsa Galileo Galilei, un professionale anche se la mia passione è la storia, avrei voluto fare il liceo») al terremoto dell'89, lo scioglimento del Pci e infine «la bandiera rossa ammainata dal Cremlino. «Leggevo l'Unità e il manifesto per capire che fine avrebbe fatto quella bandiera». Scelta conseguente, Rifondazione, fino al '98, con la rottura si schiera con il Pdci. Un'esperienza alle spalle da consigliere provinciale. «Speriamo che adesso si apra una fase costituente vera per fare un soggetto unico di sinistra. Ma senza semplificazioni, condivido la posizione di Paolo Ferrero; avremo molto tempo per costruire, senza l'assillo del governo. Non è più stagione del partito di lotta e di governo. Se il Prc tenterà forzature non impiegheremo molto tempo a riprenderci simbolo e libertà e confluire nel gruppo misto. Ma non è questo che spero. Anzi, lavoro per convincere i miei compagni di partito a fare campagna elettorale, magari con due bandiere e il doppio simbolo». E, soprattutto, «falce e martello, che non sono un orpello».
Non bisogna pensare a Ciro come a un comunista vecchia maniera. Nel suo cuore c'è posto per tante cose, per la musica ad esempio. E' un Mod orgoglioso d'esserlo, che vuol dire avere «una concezione diversa della vita, contro la sua mercificazione e contro i valori piccoli borghesi». Musica, raduni, fanzine, divisa classica, Sting più working class, il giaccone parka («un po' come il vecchio eskimo, ma molto meglio») che ogni Mod vorrebbe indossare quando arriverà la sua ora.
Del suo compagno di lavoro Antonio Boccuzzi, candidato a reti unificate da Veltroni, preferisce non parlare, «con Tony abbiamo stretto un patto di non aggressione per tutta la campagna elettorale». Avremmo voluto parlarci noi con Antonio e l'abbiamo inseguito per giorni senza riuscirci, vuoi per motivi di salute vuoi per ragioni che non conosciamo. Sappiamo di lui quel che i suoi compagni di lavoro ci hanno raccontato. Che è il coordinatore della Uilm alla ThyssenKrupp, che negli anni Novanta si era impegnato per aprire un club di Forza Italia pur non essendo organico a Berlusconi ma poi, quando i Ds arruolarono decine e decine di iscritti alla Uilm nelle fabbriche per impedire che la sinistra interna avesse il sopravvento, Antonio fu della partita e «arrivò con i santini Ds in fabbrica», mi racconta un operaio. Quando nel 2006 la Fiom chiese un'assemblea, la direzione della Thyssen negò il permesso, «in aperta violazione sulla legge 300, con la scusa che in seguito a un'incendio nello stabilimento tedesco avevano bisogno di aumentare la produzione qui da noi», raccontano in Fiom. «E sai chi testimoniò a favore dell'azienda e contro di noi? Antonio Boccuzzi». La Fiom fece causa all'azienda che alla fine scelse di patteggiare «e ci ridettero le ore d'assemblea. Per noi fu un successo, molti operai cambiarono tessera e vennero in Fiom». Ma di queste cose Ciro non vuol parlare, della serie «sono un comunista e non ho altro da dichiarare». Anzi, ci tiene a precisare che «quando la Thyssen aprì la crisi a marzo, per dirci a giugno che avrebbe chiuso Torino come noi della Fiom avevamo denunciato dal primo momento, io chiamai i coordinatori di Fim e Uilm e dissi: adesso basta con le storie del passato, dobbiamo lottare uniti, andare avanti insieme. Andò così, e anche con Antonio recuperai un rapporto».
E' uno tosto, Ciro. E' delegato da un solo anno perché la destra Fiom in fabbrica non lo vedeva di buon occhio. Invece Antonio è un vecchio delegato, Rsu e Rsl. Adesso tutti e due, separatamente, girano le fabbriche e i mercati per chiedere voti per due schieramenti diversi. Ma torniamo a Ciro, che non non fa il prezioso e racconta, racconta, non lo fermi più. «C'è una grossa incazzatura operaia, e ai cancelli, per esempio al petrolchimico di Gela, incontri qualche problema. Se riesco a parlare dappertutto è perché mi riconoscono come uno della ThyssenKrupp. Pesano le cose non fatte e quelle fatte in due anni di governo. Ieri ero alla Alstom di Savigliano, sai la vecchia Fiat Ferroviaria venduta ai francesi? Bene, lì ho trovato un clima migliore, forse perché c'è una lotta in piedi contro 150 tagli, gli operai si fermano a parlare». La solita storia: dove c'è un conflitto, la rabbia non si trasforma in chiusura e rifiuto della politica come capita a Mirafiori. «Alla Michelin, invece, è stata più dura. C'è un clima brutto nelle fabbriche e noi abbiamo grosse responsabilità su welfare, precarietà e pensioni. Sulla distribuzione della ricchezza sempre più a vantaggio dei padroni. Pure come sindacati abbiamo le nostre colpe: quel referendum sul welfare era finto. Anche la nuova legge sulla sicurezza del lavoro di Damiano, pur essendo una delle cose meno peggio fatte dal nostro governo, non va bene fino in fondo, sulle sanzioni non ci siamo».
E' figlio d'arte, Ciro. I suoi genitori arrivano a Torino dal Napoletano («sai, la zona dove stanno i 99 posse»), il papà entra in Fiat nell'autunno caldo, Mirafiori meccaniche, sala prova motori, poi Ferriere, quindi ThyssenKrupp: «E' uscito in pensione dodici anni fa, due mesi dopo che sono entrato io. Giusto il tempo per passarmi il testimone. Mia madre invece è entrata in Fiat nel '78 con l'ultima tornata di assunzioni prima dei 35 giorni dell'80 e la cassa integrazione per 24 mila. Ha resistito a tutte le offerte di danaro perché si togliesse dai piedi. Invece nell'86 è rientrata al lavoro, ora è in pensione. Lei è una che ha studiato con i corsi delle 150 ore, una delle conquiste più importanti del Pci e della Cgil».
«Legami d'acciaio»
Dopo un po' di lavoretti, dunque, Ciro entra alla Thyssen. Fa un po' di tutto perché essendo «un rompiballe» viene spesso spostato. Alla fine la sua mansione è da collaudatore «come mio padre». Addetto al reparto dov'è esplosa la tragedia ai trattamenti termici e dacablaggi chimici, addetto macchina. Un buono stipendio, 1.700 euro al mese. Lo incontriamo di ritorno dall'azienda dove è andato a firmare per l'integrazione della cassa integrazione (che non raggiunge i 1000 euro). «Quella mattina alle 5,30 ero davanti alla fabbrica per iniziare il primo turno. Ai cancelli ho scoperto quel che era successo. Alle 6 l'incendio era stato domato e dal quel momento è iniziata la conta dei morti. Dolore e rabbia, perché sai che quella strage è figlia della chiusura, dei disinvestimenti, dell'abbandono dei criteri minimi di sicurezza. Mi è rimasta negli occhi quella tragedia, insieme allo sguardo del mio amico Antonio Schiavone. Vado spesso a trovare la sua compagna, e i suoi tre bambini». Adesso Ciro è preso dalla campagna elettorale. Crede molto nella politica, si impegna a fondo per battere le resistenze dei suoi compagni di partito a cui la lista unitaria con Rifondazione, Verdi e Sinistra democratica va un po' stretta. Non è strumentalizzato, al massimo utilizza la sua riconoscibilità, il suo essere ThyssenKrupp, per parlare con altri operai, con quelli che si sentono abbandonati, lasciati soli da una politica che degli operai si ricorda solo in campagna elettorale, che si accorge che esistono quando muoiono in massa, come i topi nella nave che affonda. «Il mondo del lavoro c'è ancora, magari è diverso ma la classe operaia esiste, mica balle. Persino i contadini esistono ancora, come quelli che muoiono schiacciati dal trattore». Gira come una trottola, Ciro, tra fabbriche, mostre fotografiche e spettacoli teatrali sulla tragedia che gli ha sconvolto la vita, «adesso facciamo il sito Legami d'acciaio». Ma è forte, è allegro, è un Mod. E poi la sua compagna aspetta un bambino. La vita continua. (2/fine. l'altra puntata è uscita ieri 3 aprile)
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