C’è una Sinistra che non si è fermata al 14 aprile ma di quella sconfitta elettorale ha raccolto gli ammonimenti per ragionare su se stessa, per rimediare ai propri errori, alle infinite liturgie, ai peccati di presunzione. C’è una Sinistra che ha deciso di proporre un processo costituente che non sia la semplice somma delle appartenenze ma un’esperienza di innovazione profonda. Un progetto politico che raccolga esperienze, culture, passioni civili e tensione morale. Un progetto condiviso, costruito dal basso, capace di affrancarsi dalla prudenza dei “gruppi dirigenti”, dalla ritualità delle attese e dei rinvii. Sapendo che, nel paese, la sinistra sociale e civile è molto più avanti dei congressi che hanno preteso di rappresentarla.
La risposta che arriva da questi congressi ci dice che non tutti saranno disponibili. Amici e compagni che su questo tema si erano spesi con passione, si mostrano adesso tiepidi, preoccupati di non abbattere i recinti delle loro storie, come se l’ostacolo oltre il quale lanciare il cuore sia diventato improvvisamente troppo alto.
L’ostacolo è sempre lì, di fronte a noi. E’ un muretto sgretolato, fatto di diffidenze, calcoli, ansie identitarie. Davanti a questo muretto è franata l’esperienza di Sinistra Arcobaleno, un generoso progetto comune che si è risolto in un cartello elettorale, un’intesa di vertici di partito in cui ciascuno restava geloso del proprio nome, della propria storia, dei propri inossidabili simboli…Siamo stati sconfitti perché siamo apparsi per ciò che eravamo: una collezione di piccole patrie senza un progetto per il paese. Se la sfida oggi dovesse ridursi a conservare confini e bandiere di quelle patrie, vorrebbe dire che il cuore è rimasto inchiodato a terra. Da questa parte del muro.
Non per noi. Non per Sinistra Democratica che rilancia in questi giorni il proprio impegno per un processo costituente a sinistra: urgente, rigoroso, largo, aperto. La Costituente su cui siamo impegnati non è la liquidazione dei partiti della sinistra ma un cantiere politico che porta in sé lo sforzo di una ricerca, la scelta di misurarsi con nuovi linguaggi, nuovi riferimenti, con un nuovo sguardo sulle cose di questo tempo. Il punto d’arrivo è una nuova sinistra, capace finalmente di riorganizzare e spostare in avanti i segni di tutte le culture che si porta dentro. Non un museo ma un laboratorio. Non una somma di recinti (i socialisti con i socialisti, i comunisti con i comunisti, gli ambientalisti con gli ambientalisti, la società civile con la società civile, i radicali con i radicali…) ma un campo da seminare insieme. Con un primo urgente banco di prova: la riorganizzazione di un’opposizione di cui oggi il paese è orfano, un’opposizione che rimetta al centro dell’agenda politica quei temi – il lavoro, la precarietà, le disuguaglianze, le nuove povertà, i diritti negati, le garanzie violate - che il governo Berlusconi considera poco più che bottino elettorale.
La Costituente di Sinistra non subirà alcuna moratoria: è già in campo, e ci impegneremo perché possa confrontarsi con gli elettori già a partire dalle amministrative e dalle europee del prossimo anno. Certo, nessuno è così ingenuo da pensare che a un nuovo soggetto politico della sinistra si possa arrivare in pochi mesi con un frettoloso atto notarile. Ma nessuno può fingersi talmente sprovveduto da pensare che questo processo possa essere rimandato a tempi migliori. Il tempo per la Costituente di Sinistra è adesso, perché adesso va ricostruito un centrosinistra di nuova cultura politica, perché adesso va restituita visibilità e responsabilità a tutte le voci della sinistra, perché questo ci chiedono gli elettori che il 14 aprile ci hanno voltato le spalle e che non vogliono dover continuare a scegliere tra partiti brevi e chiusi, parole desuete, reducismo… Quattro congressi, dodici mozioni: questo è il presente della sinistra italiana. Non può essere anche il futuro.
Sinistra Democratica lo ha sostenuto nella propria assemblea nazionale: dobbiamo aprire un cantiere, discutere e lavorare insieme su forme, modalità, tempi e soprattutto contenuti. Insieme non significa nel chiuso dei nostri gruppi dirigenti. Pensiamo alla domanda di nuova politica che arriva dalla sinistra sociale e diffusa: decine di associazioni, percorsi collettivi, storie individuali di impegno e di militanza, di pensiero critico e di battaglia politica che in questi anni hanno rappresentato – da Vicenza a Palermo, da Firenze a Locri - la migliore coscienza civile del paese: la Costituente è il luogo politico in cui ciascuna di quelle storie può ritrovare voce, sovranità, responsabilità.
Dobbiamo fare presto e bene. Evitando che a decidere per noi sia una nuova legge elettorale. Far nascere un progetto unitario come una necessità legata alle cifre di uno sbarramento sarebbe una fuga, non una scelta. Gli elettori ci hanno detto che dalla sinistra non vogliono finzioni o tatticismi ma assunzione di responsabilità. Per questo chiediamo a chi si riconosce in questa urgenza e in questo percorso di farsi avanti: la Costituente di Sinistra deve essere un processo plurale, aperto, inclusivo. Di pari dignità, di reciproca responsabilità. Senza ospiti né padroni di casa. E’ ciò che il paese si aspetta da noi.
Claudio Fava
mercoledì 30 luglio 2008
martedì 29 luglio 2008
"Bandiera Rossa? È come fare la guardia al proprio museo"
intervista a Claudio Fava
Il Congresso di Rifondazione, spiega il coordinatore nazionale di Sd Claudio Fava, ha fatto chiarezza. Non tanto per la vittoria di Paolo Ferrero quanto perché, dall’altro lato «prende ancora più forza e più urgenza la necessità di organizzare a sinistra un incontro tra storie, culture, sensibilità, linguaggi, che hanno scelto la sinistra non come museo ma come luogo di trasformazione del presente, laboratorio politico». Parla alla minoranza di Nichi Vendola, ma non solo. «Bandiera Rossa non è una scelta politica, è una fuga dalla politica. Da questa parte può e deve esserci l’idea di un sinistra che riorganizza profondamente sè stessa».
I congressi di luglio hanno visto tutti i partiti stringersi attorno alla propria idea forza...
«L’idea forza di un partito è tale quando produce anche effetti sul piano elettorale. Con il voto di aprile gli elettori ci dicono che non si sentono rappresentati da partiti ridotti a segmenti brevi, minuti, autoreferenziali, e che vogliono una sinistra che sia capace di rappresentarli spostando in avanti il ragionamento sulle identità. Credo che il congresso di Rifondazione, in questo senso, aiuti ad una maggiore verità nel dibattito politico. Tra chi sceglie Bandiera Rossa e chi sceglie di riorganizzare la sinistra in un campo molto più vasto e inclusivo».
Il tempo che avete a disposizione non sembra molto.
«O questo progetto parte subito, o questo laboratorio comincia a riempirsi di contenuti, oppure ricadiamo nel politicismo, nel tatticismo, nell’analisi delle convenienze. Noi siamo stati seppelliti dalle nostre contabilità elettorali e dai nostri tatticismi. E dovremo sentire un po’ più il cuore della nostra comunità che ci dice “mai più ciascuno a guardia del proprio museo”. Tutto questo va fatto subito».
Un’occasione?
«Io penso all’Abruzzo come un primo appuntamento non solo elettorale ma anche politico. La giunta in Abruzzo è scivolata rumorosamente sulla sovrapposizione tra ceto politico e potere locale. Su un tema tragico e fondamentale come la Sanità, che da diritto pubblico diventa profitto privato, è scivolata manifestando l’assoluta assenza di un’etica civile nella politica. E quindi non si tratta solo di scegliere il primo appuntamento elettorale».
Il problema abruzzese tiene dentro anche il timore di riconsegnare la Regione al centrodestra. Di Pietro è intenzionato ad andare da solo...
«Nessuno può stare in campo da solo. A meno che non scelga di stare in campo soltanto per vanità personale. Il centrosinistra può riorganizzarsi in Abruzzo, ma deve riorganizzarsi a partire da un azzeramento di tutte le gerarchie pregresse. Il centrosinistra in Abruzzo, più che altrove, non può avere padroni di casa e ospiti. Questo vale per il Pd come per Di Pietro».
Uno dei temi della sinistra che ha vinto il congresso del Prc è quello di spostare il “conflitto”...
«Il limite di questo gruppo dirigente del Prc è che assume il conflitto come parola onnivora, singolare, capace di rinchiudere dentro di sè una realtà sempre più complessa. Noi parliamo di “conflitti”. Questo è un tempo in cui la politica si deve fare carico di questa complessità e deve assumersi la rappresentanza di tutti i conflitti, non solo del conflitto più ortodosso, più tradizionale, che è il conflitto di classe. Questa è una lettura semplicistica, consolatoria, ma inadeguata a leggere il Paese reale».
L’obiettivo di Sd era quello di tenere insieme la Sinistra, a distanza di un anno e più dall’ultimo congresso dei Ds a che punto è la notte?
«Il punto più cupo è stato il 14 aprile. Da quel voto abbiamo ricevuto una lezione che ci chiede di riorganizzare la sinistra su di un piano di verità, di innovazione, di critica del presente e del passato, di capacità di rischio, di fantasia politica, di inclusività. Alla fine di quest’anno possiamo dire che sappiamo cosa non dobbiamo fare».
Il Congresso di Rifondazione, spiega il coordinatore nazionale di Sd Claudio Fava, ha fatto chiarezza. Non tanto per la vittoria di Paolo Ferrero quanto perché, dall’altro lato «prende ancora più forza e più urgenza la necessità di organizzare a sinistra un incontro tra storie, culture, sensibilità, linguaggi, che hanno scelto la sinistra non come museo ma come luogo di trasformazione del presente, laboratorio politico». Parla alla minoranza di Nichi Vendola, ma non solo. «Bandiera Rossa non è una scelta politica, è una fuga dalla politica. Da questa parte può e deve esserci l’idea di un sinistra che riorganizza profondamente sè stessa».
I congressi di luglio hanno visto tutti i partiti stringersi attorno alla propria idea forza...
«L’idea forza di un partito è tale quando produce anche effetti sul piano elettorale. Con il voto di aprile gli elettori ci dicono che non si sentono rappresentati da partiti ridotti a segmenti brevi, minuti, autoreferenziali, e che vogliono una sinistra che sia capace di rappresentarli spostando in avanti il ragionamento sulle identità. Credo che il congresso di Rifondazione, in questo senso, aiuti ad una maggiore verità nel dibattito politico. Tra chi sceglie Bandiera Rossa e chi sceglie di riorganizzare la sinistra in un campo molto più vasto e inclusivo».
Il tempo che avete a disposizione non sembra molto.
«O questo progetto parte subito, o questo laboratorio comincia a riempirsi di contenuti, oppure ricadiamo nel politicismo, nel tatticismo, nell’analisi delle convenienze. Noi siamo stati seppelliti dalle nostre contabilità elettorali e dai nostri tatticismi. E dovremo sentire un po’ più il cuore della nostra comunità che ci dice “mai più ciascuno a guardia del proprio museo”. Tutto questo va fatto subito».
Un’occasione?
«Io penso all’Abruzzo come un primo appuntamento non solo elettorale ma anche politico. La giunta in Abruzzo è scivolata rumorosamente sulla sovrapposizione tra ceto politico e potere locale. Su un tema tragico e fondamentale come la Sanità, che da diritto pubblico diventa profitto privato, è scivolata manifestando l’assoluta assenza di un’etica civile nella politica. E quindi non si tratta solo di scegliere il primo appuntamento elettorale».
Il problema abruzzese tiene dentro anche il timore di riconsegnare la Regione al centrodestra. Di Pietro è intenzionato ad andare da solo...
«Nessuno può stare in campo da solo. A meno che non scelga di stare in campo soltanto per vanità personale. Il centrosinistra può riorganizzarsi in Abruzzo, ma deve riorganizzarsi a partire da un azzeramento di tutte le gerarchie pregresse. Il centrosinistra in Abruzzo, più che altrove, non può avere padroni di casa e ospiti. Questo vale per il Pd come per Di Pietro».
Uno dei temi della sinistra che ha vinto il congresso del Prc è quello di spostare il “conflitto”...
«Il limite di questo gruppo dirigente del Prc è che assume il conflitto come parola onnivora, singolare, capace di rinchiudere dentro di sè una realtà sempre più complessa. Noi parliamo di “conflitti”. Questo è un tempo in cui la politica si deve fare carico di questa complessità e deve assumersi la rappresentanza di tutti i conflitti, non solo del conflitto più ortodosso, più tradizionale, che è il conflitto di classe. Questa è una lettura semplicistica, consolatoria, ma inadeguata a leggere il Paese reale».
L’obiettivo di Sd era quello di tenere insieme la Sinistra, a distanza di un anno e più dall’ultimo congresso dei Ds a che punto è la notte?
«Il punto più cupo è stato il 14 aprile. Da quel voto abbiamo ricevuto una lezione che ci chiede di riorganizzare la sinistra su di un piano di verità, di innovazione, di critica del presente e del passato, di capacità di rischio, di fantasia politica, di inclusività. Alla fine di quest’anno possiamo dire che sappiamo cosa non dobbiamo fare».
La norma antiprecari è un ulteriore strappo
Titti Di Salvo*
Nessuno stupore per l’ennesimo sfregio del governo Berlusconi sul lavoro. Uno sfregio è anche un imbroglio e un via libera alla irresponsabilità delle imprese. Perché se una impresa usa in modo irregolare i contratti a termine in virtù delle nuove regole berlusconiane, la conseguenza non è l’assunzione né a termine né a tempo indeterminato, ma un indennizzo. La memoria corre al risarcimento che nel 2001 l’allora governo Berlusconi proponeva al posto dei diritti previsti dall’articolo 18. Oggi di fronte all’insorgere dei sindacati contro la norma antiprecari, imbarazzati ministri si nascondono dietro alla responsabilità del parlamento. Perché lì la norma è stata concepita come emendamento al testo del governo che non l’aveva direttamente generata. Ma in quel testo la norma antiprecari ci sta bene in mezzo a tante altre che minuziosamente smontano le scelte positive del governo Prodi sul lavoro, insufficienti certo ma divaricate rispetto alla cultura politica liberista dell’attuale governo e per questo obiettivo da colpire. Molti in queste ore si affannano a spiegare che la norma antiprecari si riferisce al contenzioso annoso aperto soprattutto nei confronti delle Poste, da lavoratori precari: come se la limitazione ad un settore migliorasse il senso di una lesione ai diritti delle persone che rasenta l’incostituzionalità. Ora mettendo in fila le scelte fatte fin qui dal ministro Sacconi – dalla detassazione degli straordinari alla cancellazione della legge sulle dimissioni in bianco a tutto il decreto 112 - e poi le scelte fatte dal ministro Brunetta - di accanimento nei confronti dei lavoratori del pubblico impiego e attraverso di essi nei confronti dei servizi pubblici – e aggiungendo il profilo della manovra economica tutta di tagli proprio in quei settori necessari per lo sviluppo scuola, università e ricerca – e il consenso entusiasta a tutto ciò di Confindustria, il quadro che ne viene fuori è preciso. Così come il segno recessivo dell’azione di governo per la verità coerente con il programma elettorale del centro destra.
Mentre il paese è sempre più disuguale, salari e pensioni sono mangiati dall’inflazione e la precarietà come condizione dell’esistenza aumenta.
Allora il punto è uno solo.
Mentre tutto ciò succede, i congressi della sinistra non sono un bel vedere. Non lo è stato il congresso di Rifondazione Comunista rispetto al quale la nostra delusione è tanta più che mai se il clima di quel congresso lo si confronta con i bisogni del paese.
Ci vorrebbe una sinistra, di governo, autonoma, libera per questo capace di fare una opposizione concreta ed efficace: perché anche la critica a come il PD fa opposizione diventa un ritornello logoro se ad essa non si affianca una nostra idea di paese, di futuro, di società cui ispirare una opposizione con gli strumenti che abbiamo.
Questo il compito a cui Sinistra Democratica non deve e non vuole rinunciare a partire dai diritti del lavoro.
*del Coordinamento Nazionale
mercoledì 23 luglio 2008
Quanto "tira" la classe operaia
il testo completo dell'inchiesta sulla droga nelle fabbriche italiane condotta da Loris Campetti per "il manifesto"
Inchiesta
Quanto tira la classe operaia
La cocaina va a ruba nelle fabbriche tra i più giovani. Prima puntata
Alla Sevel in Val di Sangro un operaio su due consuma sostanze stupefacenti. Lo stesso avviene dove l'età media è molto bassa. Si sniffa per reggere «un lavoro e una vita di merda», perché così fan tutti, perché la fabbrica non è più una comunità. Lo spaccio, i furti, i blitz. La polvere bianca cambia il rapporto con il lavoro e il sindacato Al montaggio ci sono stati casi di ragazze che si prostituivano per pagarsi la dose. Adesso meno e solo quando finisce lo stipendio
Loris Campetti
Atessa (Chieti)
«Il proletariato non è soltanto una classe che soffre... La vergognosa situazione economica nella quale si trova lo spinge irresistibilmente in avanti e lo incita a lottare per la sua emancipazione definitiva». Così scriveva nel 1840 Friedrich Engels nella sua magistrale «Indagine sulla condizione della classe operaia in Inghilterra». E' un'idea semplice quanto straordinaria quella di Engels e Marx, che ha mosso centinaia di milioni di uomini e donne in tutto il pianeta nel corso dei due secoli alle nostre spalle. Un'idea che ha cambiato il mondo, emancipando grandi masse da una condizione di miseria e subalternità attraverso la lotta di classe, il «motore della storia».
A che punto è la storia, 170 anni dopo l'indagine di Engels? Questa domanda ci è sorta spontanea al termine della nostra inchiesta sul consumo e la diffusione delle droghe nelle fabbriche italiane, e siamo andati a risfogliare i testi classici, memori delle operaie tessili di Manchester poco più che bambine, costrette ad avvelenarsi con «cherry, porto e caffè» per reggere un ritmo di lavoro disumano per 15-16 ore al giorno. Nel 2008 ci sono realtà industriali importanti in cui addirittura il 50% dei lavoratori si fa di cocaina e, in misura minore, di eroina e di ogni sostanza capace di rendere più tollerabile una «vita di merda», o meglio, di far sognare un'improbabile fuga da essa. Di merda è il lavoro così come la normalità delle relazioni in paesi privi di vita sociale, che concedono ben poco alle speranze di futuro e di cambiamento, ci raccontano le tute blu. Ci si fa per lavorare, per sballare, per fare l'amore. Ci si fa alla catena di montaggio, in discoteca con gli amici, a letto con la moglie per migliorare le prestazioni sessuali; poi arriva la dipendenza e con essa lo spaccio per pagarsi la dose. Operai e operaie, capi e sorveglianti, adescati in fabbrica da altri operai: una «pista» nei cessi della fabbrica tanto per provare, l'esaltazione e il cuore che batte a mille, l'adrenalina che all'inizio fa persino aumentare la produzione, infine la consuetudine. Si lavora di notte per guadagnare trecento euro in più, 1.400 invece di 1.100 euro buoni per affrontare l'astinenza e la crisi della quarta settimana. La notte ci sono meno controlli, «tu fai i picchi di produzione e i capi non ti rompono il cazzo». Qualche ragazza può persino arrivare a prostituirsi per pagarsi la dose, per fortuna casi sporadici.
Dall'officina al muretto
Dalla fabbrica la droga arriva nei paesi di provenienza dei lavoratori in una spirale perversa di cui, oltre alle forze dell'ordine, si occupano in pochi: operatori sociali, Ser.T, qualche livello istituzionale. Le aziende nascondono finché possono il fenomeno per salvare la faccia; quando un caso esplode, magari dopo l'ennesimo blitz dei carabinieri, scelgono la repressione attraverso il licenziamento o le «dimissioni spontanee», a volte aiutano il recupero dei tossicodipendenti. I sindacati, anch'essi, rimuovono, cosa che non riescono più a fare i delegati il cui impegno rischia di cambiare natura, assorbito dal lavoro di aiuto ai ragazzi finiti nella spirale. Ragazzi - anche iscritti al sindacato, persino delegati - che non vivono, se non molto parzialmente, il lavoro come emancipazione, come veicolo per costruirsi un futuro, ma come pura fonte di introito per continuare a sniffare coca o a iniettarsi eroina, oppure a fumarla «come fa un gruppo di ragazze del mio turno», dice Arturo che da anni prova a disintossicarsi e ci ricade ogni volta, nonostante il suo appuntamento quotidiano al Ser.T di Pescara. Lui dal sindacato (è iscritto alla Fiom) si aspetta «solo un aiuto per difendermi dai capi che mi ricattano, mi perseguitano, mi danno giorni e giorni di sospensione per poi tenerli nel cassetto e tirarli fuori ogni volta che provo ad alzare la testa». Arturo alterna lavoro in fabbrica, assenze per malattia e molto d'altro per tirare avanti. Ha abbandonato l'università in seguito a un grande trauma, il terremoto al suo paese, San Giuliano di Puglia, e ha cominciato a farsi.
Abbiamo iniziato il nostro viaggio alla Sevel di Atessa, Val di Sangro, Abruzzo. Assegneremo nomi di fantasia a molti interlucutori, ragazzi e ragazze che usano sostanze stupefacenti, delegati sindacali che chiedono l'anonimato, operatori delle forze dell'ordine impegnati nell'antidroga. La Sevel è la principale fabbrica italiana della Fiat per numero di addetti dopo Mirafiori. Vi si costruiscono i furgoni Ducato per la multinazionale torinese e per la francese Psa (Peugeot e Cytroen), un prodotto che non sta risentendo della crisi internazionale dell'automobile. Dalla nascita, nel 1980, la Sevel ha progressivamente aumentato la sua capacità produttiva e oggi dà lavoro a 6.500 persone sui tre turni, mattino, pomeriggio, notte, a cui si aggiungono quasi duemila operai di ditte esterne che operano nel perimetro dello stabilimento e migliaia di addetti dell'indotto. Solo in Val di Sangro sono 10 mila le famiglie che vivono di Sevel, tra i 10 e i 15 milioni di euro al mese che rappresentano la principale fonte di reddito della valle. Inutile dire che al peso economico dell'azienda si aggiunge quello politico. Una situazione per molti aspetti analoga a quella determinatasi in Basilicata con l'arrivo della Fiat-Sata. L'azienda procede con assunzioni massicce - ci racconta la nostra guida, il delegato Fiom Antonio Di Tonno - grandi infornate di ragazzi e ragazze diciottenni selezionati alla bell'e meglio. Il bacino primario ormai non è più sufficiente a soddisfare la domanda Fiat e sono sempre più numerose le assunzioni effettuate in tutto il Chietino, il Pescarese, il Molise, la Puglia, la Campania. Età media bassissima, alto turnover perché qui «si fatica sodo»: «I giovani vivono in modo estraniante il rapporto con la fabbrica e il sindacato, per non parlare della politica. Pensano al pallone, alla pizza, alla discoteca. E alla cocaina. C'è chi fa di tutto per non farsi confermare al termine del periodo di prova, così da poter dire ai genitori: "io ho provato, non è colpa mia se non mi hanno preso". Vuoi per questo atteggiamento, vuoi per una diffusione della droga fuori controllo, adesso la Sevel sta assumendo persone un po' più grandi, tra i 25 e i 28 anni». Tanto i delegati quanto un ufficiale dell'antidroga che in fabbrica è di casa, con blitz notturni alla ricerca quasi sempre fruttuosa di sostanze, valutano che un dipendente su due sia coinvolto con maggiore o minore frequenza e dipendenza nel giro della cocaina. Fino a poco tempo fa, dosi massicce di droga venivano trovate negli armadietti degli operai. Ci raccontano di sequestri di molte dosi di coca, di eroina e mattoni fino a un chilo di peso di hashish. In tanti sono stati beccati, ora tutti si sono fatti più accorti.
Il silenzio è d'oro
Non sempre i rapporti delle forze dell'ordine con la sicurezza aziendale sono idilliaci, così ai blitz interni allo stabilimento si aggiungono quelli fuori, a colpo sicuro. Perché tossici e spacciatori sono ricattabili, ed è da loro che arrivano le soffiate a Ps e Cc. E all'azienda, che talvolta utilizza le spiate per poi compromettere gli spioni facendo a sua volta spiate ai i loro compagni di lavoro. Ci sono stati arresti, ma tutto resta sotto traccia, e la stampa, anche quella locale, tace. La Procura si muove con i piedi di piombo, a volte neanche sostiene il lavoro dei Pm che autorizzano l'utilizzo delle cimici nel tentativo di arginare il fenomeno. «In fabbrica - dice Antonio - è saltato l'ordine. E l'azienda, dopo aver lavorato con costanza a neutralizzare il sindacato, ora lamenta la mancanza di un'interlocuzione con noi, nel senso che non siamo più un interlocutore forte di una conoscenza approfondita della fabbrica, degli operai, dei problemi».
Questi giovani operai e operaie sono completamente diversi dalla classe operaia che conosciamo e raccontiamo. I «vecchi» con vent'anni e più di servizio in Sevel, sono furiosi con le nuove generazioni in tuta blu: «Se le cercano, non vogliono fare un cazzo, ti contattano solo per farsi spostare in postazioni migliori. Sono individualisti e non ci rispettano, la droga li ha svuotati dentro. Invece del lavoro - dicono - hanno in testa la cocaina». Su una cosa vecchi e giovani sembrerebbero uniti: votano in maggioranza a destra, per Fini e Berlusconi, o non votano, anche molti di quelli che avevano investito sul governo Prodi e sono rimasti delusi. Anche qualche iscritto ai sindacati, persino un po' di delegati possono votare a destra: «Con la tessera difendono il salario dal padrone, con il voto a destra lo difendono dallo stato che ci massacra con le tasse». «La fabbrica è diventato un supermercato, si vende di tutto: puoi acquistare un motore Alfa, un paracarro, uno stereo, ogni tipo di droga proveniente soprattutto da Napoli attraverso i camionisti che portano in fabbrica componenti e materiale necessario alla produzione dei furgoni. La roba finisce in mano agli spacciatori interni e, di mano in mano, raggiunge tutti i reparti, poi esce dalla fabbrica e arriva nei paesi dove tutti consumano droghe leggere e tanti, forse addirittura l'80%, si fanno di coca, dai 14 ai 40 anni», racconta un addetto alla repressione esterna e ci confermano i ragazzi con cui parliamo, nonché il segretario della Fiom abruzzese, Marco Di Rocco: «Una piaga sociale».
Ma il processo di trasformazione culturale riguarda innanzitutto la fabbrica: ci si fa sulla linea di montaggio, si sniffa nelle pause vicino all'armadietto e al cesso ci si buca. Qualche volta, ci dice un ufficiale, «sono stati beccati dei ragazzi esaltati che facevano l'amore dentro i furgoni che costruiscono». I furti negli armadietti non si contano, «riescono a svuotarne così tanti perché operano in squadre organizzate», ci dice un altro delegato. Ma spariscono anche i sifoni dei bagni, gli specchi. «Tutto per quattro soldi, per un quartino». Il quartino è una dose da un quarto di grammo di coca, con una ventina di euro te la porti a casa o alla catena. Il suo prezzo, da Napoli ad Atessa, può anche triplicare.
Ricatti e minacce
Perché lo fanno? «Perché sono uguali ai loro coetanei che studiano o vivacchiano in paese. Qualcuno - ci dice chi si occupa di droga nel territorio di Lanciano - all'inizio tira coca per reggere un lavoro molto pesante, ma non è questa la motivazione prevalente. Lo fanno soprattutto la notte perché la sorveglianza è minore. E se chi spaccia è ricattabile, i sorveglianti interni non hanno strumenti per intervenire e vengono minacciati». Giulietta e Romeo sono due operai in trattamento da qualche anno al Ser.T. Eroinomani, ora vivono con la loro dose quotidiana di metadone e giurano di esserne fuori. Giulietta ha ereditato un'epatite C dal tempo in cui si bucava, è stata trasferita dalla linea a un posto più umano solo dopo quattro svenimenti. Ora lavora in verniciatura, che non è l'ideale per chi ha il fegato compromesso. Il nostro delegato Fiom si impegna di fronte a noi ad aiutarla a farsi trasferire in un posto compatibile con il suo stato di salute. Questo fanno i delegati, spesso chiamati a «dare una mano» con i capi, per ottenere turni o postazioni migliori: «Mi arrivano in casa - dice Antonio - i genitori di ragazzi finiti nella spirale. Chiedono aiuto». Molti sono giovani con contratti atipici. Si subisce il turno di notte perché sei precario e ricattabile, o lo si sceglie per guadagnare 300 euro in più, o perché «ci si può drogare senza troppe rotture di coglioni». I «pipistrelli» spesso vivono la notte come un «regalo», e lavorano a testa bassa per difenderlo.
Il Ser.T di Lanciano ha 220 utenti, la metà sono operai Sevel. «Non ci si fa per reggere la fatica. Molti arrivano in fabbrica già legati alla coca o all'eroina. All'inizio può darti un po' di carica, se la controlli ti aiuta ma se ne fai un uso eccessivo non riesci più a lavorare. Il fisico regge meglio l'eroina - sostiene Romeo - che dà assuefazione solo psicologica. Con l'ero e poi passando al metadone riesci a fare la tua vita. Con la coca è peggio, 30 euro al giorno per la dose è tutto quello che cerchi. Si sente dire che al montaggio c'è stato qualche caso di ragazze che si prostituivano per tirar su i soldi». Questo è un tabù, anche chi è disposto a raccontarti tutto finge di non sapere, di non aver capito la domanda. Si sa «ma non si dice, sono solo voci che corrono». Corrono in fretta. Ripeti la domanda e allora la risposta è obbligata: «Una volta succedeva, adesso meno e solo a fine mese quando lo stipendio è finito». Rimozione o pudore? Forse entrambe le cose. Giulietta dice di dover ringraziare un capo che l'ha aiutata quando era ridotta molto male e pesava 38 chili: «Ero arrivata a consumare anche 80 euro al giorno per l'eroina, e a quel punto non ti resta che spacciare», se di prostituirti non vuoi sentir parlare. Che cos'è il lavoro per questi ragazzi? Per Romeo «è la cosa principale, mi dà un senso, un'identità» e invece per Giulietta «non è possibile identificarsi con questo lavoro. Se potessi me ne andrei domani. Ma non in un'altra fabbrica, tutto sommato la Sevel è il miglior posto di lavoro in zona. Vorrei fare altro nella vita». E il sindacato? «Ho un buon rapporto, è importante il sindacato. Però - ammette Romeo - raramente partecipo agli scioperi». E Giulietta: «Io non ho rapporti, i miei delegati sono pappa e ciccia col padrone. Solo la Fiom si salva. Però agli scioperi aderisco, almeno a quelli di otto ore così mi risparmio la fatica di andare in fabbrica». Perché vi fate? «Prova tu a vivere in questi paesi, poi lo capisci e ti fai anche tu». Non ha dubbi Giulietta. Ora riesce a vivere decentemente insieme al suo compagno. «Ormai siamo fuori. Ma non dal metadone, quello te lo porti dietro tutta la vita». Romeo non ha rinunciato all'idea di liberarsi anche del metadone, «una volta ci ho provato, forse proverò ancora». Sono due utenti modello, da cinque anni non si bucano e riescono a farsi le vacanze fuori: prima però passano al Ser.T, si portano le dosi quotidiane e poi via, alla ricerca di una vita normale. Con chiunque parli ti senti ripetere che con la cocaina non c'è problema, «puoi smettere quando vuoi». Fatto sta che non smettono. In pochi ammettono di essere tossicodipendenti. Lo raccontano a noi o a se stessi?
La crisi della comunità
L'impressione che si trae da questo primo giro è che la «diversità» operaia sia finita, i giovani in tuta sono uguali a quelli senza perché la fabbrica non è più una comunità, un luogo identitario, di aggregazione. Si condivide una stessa condizione di lavoro ma è più facile mettersi insieme per sniffare che per lottare contro il padrone. La fabbrica è sempre più un luogo di transito per i giovani. E un luogo di consumo, di spaccio. (1/continua)
inchiesta Sata di Melfi, dal «prato verde» alla tossicodipendenza
Un po' di coca e il turno se ne vola via
Nello stabilimento gioiello della Fiat si «tira» per reggere i ritmi del Tmc2. Ma la cocaina detta anche tutti i tempi della vita e permette un commercio che per molti consumatori si trasforma in un bel business
Loris Campetti
Melfi (Potenza)
All'inizio era il «prato verde», messi di grano a perdita d'occhio nella straordinaria piana di San Nicola. Il grano ha lasciato il posto allo stabilimento Fiat-Sata di Melfi e la collina che si arrampica verso il paese è ferita da una strada costruita tutta in sopraelevata. Quando venne inaugurata la fabbrica, nel '94, speranze di emancipazione e retorica postdemocristiana si mescolarono in una narrazione inedita in questa terra lucana: arriva il capitalismo serio, si può uscire da una povertà contadina dominata per decenni dal paternalismo di Emilio Colombo. Arriva l'industria, arriva il progresso. Il vecchio applaudiva al passaggio dei nuovi padrini: «Romito, salutateci Agnello», aveva scritto su un cartello ripreso da cento telecamere e alla Fiat veniva concesso tutto, dalla deroga al divieto del lavoro notturno per le donne a una rivisitata forma di gabbie salariali che condannavano i futuri operai a guadagnare meno dei loro compagni di Mirafiori e a lavorare di più.
«Prato verde» chiamarono lo stabilimento di San Nicola. Perché nasceva dal nulla (il grano, si sa, è nulla) e nell'assenza di memoria dell'industria e del conflitto. Ci sono voluti 10 anni esatti perché gli operai di Melfi esplodessero decretando la fine della pace sociale, per 21 giorni bloccarono i cancelli, ressero alle cariche della polizia e ruppero un isolamento che inutilmente, in tanti nella politica, nei media e persino nei sindacati avevano cercato di costruire intorno ai nuovi briganti in tuta blu. Vinsero, con il sostegno quasi solitario della Fiom, diventarono maggiorenni conquistando diritti che altri, in altre stagioni, avevano conquistato e che ora, tutti insieme, rischiano di perdere di nuovo.
Quasi 15 anni dopo la nascita, Melfi è uno degli stabilimenti di punta della Fiat. 5.300 dipendenti diretti, 10 mila con l'indotto. Gli operai arrivano a San Nicola ogni mattina, pomeriggio e notte da tutti i paesi della Basilicata, dal nord della Puglia e in parte dalla Campania. Ore e ore di pullman o di macchina, centinaia di incidenti stradali con tanti morti e feriti accumulati in 15 anni di pendolariato. Anche qui, come alla Sevel in Val di Sangro, lavora una classe operaia molto giovane che spesso non riesce a reggere i ritmi ossessivi della fabbrica modello, come testimonia un turnover molto alto. Anche qui, come alla Sevel, impazza la cocaina. Mentre ci lasciamo alle spalle la piana e il paese viaggiando verso Potenza, un delegato Fiom senza nome ci racconta la «normalita» del consumo e dello spaccio lungo le linee di montaggio - pardon, le Ute, un acronimo che sta per Unità produttive elementari che viaggiano sui ritmi della famigerata metrica Tmc2, responsabile di strappi, ernie, tunnel carpali, tendiniti. «La cocaina circola in fabbrica dall'inizio, ma solo da pochi anni ha assunto dimensioni di massa. Un carrellista che lavora nella mia Ute vende una quantità di dosi incredibili agli altri operai, ai capi, ai vigilanti che tirano da matti, alle donne. Lo spaccio è quotidiano come il consumo, ma il venerdì e prima delle vacanze il volume degli affari va alle stelle perché vengono acquistate le dosi per il sabato sera in discoteca, o per le ferie. Il mio amico carrellista prima di Natale ha tirato su 15 mila euro, in poco tempo si è fatto casa». Ci si droga anche dentro la fabbrica? «Gli operai - risponde - si fanno durante le pause, li riconosci perché riprendono il lavoro eccitati, tirano su col naso, è una specie di tic, e per una mezz'ora producono come pazzi, poi si danno una calmata. All'inizio sono solo consumatori saltuari, ma quando prendono il vizio si trasformano in piccoli spacciatori per pagarsi la dose. Le canne se le fanno direttamente sulla Ute: sentissi che profumo...».
Droga di sostegno
I prezzi della cocaina si aggirano tra i 70 e i 100 euro a grammo, i soliti 20-25 euro a quartino. Arriva soprattutto da Foggia portata dai soliti camionisti che riforniscono la fabbrica di pezzi, componenti e sogni di gloria, o di fuga che dir si voglia. «C'è anche qualcuno che si buca - continua il racconto del nostro amico delegato - e spesso viene aiutato dall'azienda a recarsi qualche periodo in comunità per tentare di disintossicarsi». Perché si drogano? «Anni di lavoro in questa fabbrica ti spompano. Il ritmo è stressante, i viaggi quotidiani per raggiungere o lasciare il lavoro fanno il resto e la vita nei paesi è banale, noiosa. C'è chi si fa per reggere lo stress, ma spesso le motivazioni sono altre: per stare bene con gli amici, per stare bene con la moglie o il marito. Molti si portano la coca a casa e fanno sniffare anche la moglie per scopare meglio». Vuol dire che con gli amici si sta male senza farsi? E che non si riesce a divertirsi in discoteca o a letto senza l'uso di cocaina? Il delegato scuote le spalle, e va avanti nel suo racconto. Insiste sul legame con il sesso: «Quando tirano, anche in fabbrica, non li ferma più nessuno. Qui si dice «inculare la formica» quando sei preso dal raptus e ti senti Rambo, e succede che il tuo compagno di lavoro, un po' per gioco e un po' no, venga a toccarti il culo, non avendo una donna a portata di mano». Tra i consumatori ci sono anche iscritti al sindacato? «Ce ne sono, ce ne sono. Anche delegati. Uno dell'Ugl è stato anche bastonato perché era in ritardo con il pagamento allo spacciatore. I delegati Fiom? Qualche spinello, quello tutti. Sì, qualcuno usa anche la cocaina. La maggior parte dei consumatori - cambia discorso - è sposato e ha figli». Qual è la percentuale dei cocainomani? «C'è chi dice il 40%, chi corregge la cifra al rialzo: uno su due».
Stress, noia, sesso, voglia di essere diverso anche se poi finisce che sei esattamente uguale a tutti gli altri tuoi coetanei. «Di notte c'è meno controllo ma si sniffa in tutti i turni. In questa fabbrica si può comprare fumo, coca, eroina ma anche perizoma, canottiere, elettrodomestici. Tutti sanno nessuno parla. Per paura, per convenienza, per quieto vivere». In realtà c'è chi parla: i blitz dell'antidroga fuori dai cancelli, sui piazzali dello stabilimento, finiscono spesso con arresti, dunque le spiate non mancano. Chi viene pizzicato con le mani nella farina viene spinto dall'azienda a dimettersi, oppure viene degradato e spostato in altre unità, «è successo recentemente a un quarto livello del montaggio». Dalla lotta vittoriosa dei 21 giorni, Michele è assessore di Rifondazione alle politiche sociali della provincia di Potenza, in distacco dalla Fiat di Melfi dove fa l'operaio: «Ho assistito personalmente - ci racconta - all'arresto di due operai sul pullman che ci riportava al paese dopo il turno di notte: sono saliti in tre, uno in borghese dalla porta davanti e due in divisa da quella posteriore per bloccare le uscite e sono andati a colpo sicuro mettendo le manette a due operai, direttamente sul pullman. Per fortuna quella volta non avevano roba con sé e sono stati rilasciati». In qualche caso, però, scatta il licenziamento ma sempre con motivazioni diverse: «Due ragazzi - ci racconta l'avvocato Lina Grosso che segue le cause di lavoro per la Fiom - sono stati licenziati per assenza ingiustificata, ma è noto che si trattava di due tossicodipendenti. Noi avviamo la procedura ma in questi casi la Fiat punta sempre a monetizzare, offrendo soldi a chi di soldi ha bisogno come il pane, pur di non arrivare a sentenza. Per noi è difficile convincere questi ragazzi a non accettare l'offerta, anche perché non abbiamo alcuna certezza di vincere la causa». E questo è uno dei tanti problemi a Melfi, dove le procedure d'urgenza (il 700 contro i licenziamenti) durano mesi e mesi e le sentenze, quando ci si arriva, rarissimamente sono a favore del sindacato. «C'è invece il caso di un altro operaio, dipendente da alcol, che l'azienda metteva regolarmente in postazioni per lui insostenibili. Una volta chiese di poter uscire per andare in ospedale perché stava male. Lo bloccarono più volte finché non riuscì a scappare determinando momenti di forte tensione. Fuggì in automobile dopo una colluttazione con due capi in stato confusionale ed ebbe un incidente d'auto. L'azienda l'ha licenziato e noi abbiamo fatto causa. Abbiamo perso in primo grado e siamo andati in appello, anche perché una perizia medica ha stabilito che non era in grado di intendere e di volere per cui non è stato condannato in sede penale. Dopo una seconda perizia che ha confermato la prima, la Fiat ha proposto la transazione, cioè la monetizzazione per non arrivare a sentenza. Il nostro assistito non ha accettato e ora aspettiamo il verdetto del giudice». Finalmente, all'inizio della settimana è avvenuta una cosa che ha ridato qualche speranza all'ufficio legale della Fiom: il giudice di melfi ha accolto il ricorso contro il licenziamento di un operaio Sata, Michele Passannante, «senza giusta causa», dopo l'apertura di un'inchiesta giudiziaria in cui è indagato per una presunta appartenenza all'area del terrorismo. Ora la Fiat dovrà riaprirgli le porte della fabbrica e pagargli gli stipendi arretrati.
Un'emergenza che dilaga
La Regione Basilicata si occupa della Fiat di Melfi dal giorno della sua apertura, e lo fa manifestando talvolta un certo grado di autonomia rispetto allo strapotere esercitato nel territorio dalla multinazionale torinese. Ha attivato incheste («magari la Procura fosse altrettanto attiva», ci dicono gli avvocati che difendono gli operai) sul mutamento della vita nei paesi in cui vivono i dipendenti Sata e dell'indotto, sugli infortuni stradali stradali legati al pendolarismo, sul mobbing. La Regione si è occupata anche di tossicodipenza in fabbrica. In particolare c'è un'inchiesta curata dall'equipe della Cooperativa Marcella sulla percezione delle droghe da parte dei lavoratori dell'area industriale di Melfi: «Tutti sono concordi nell'affermare che l'uso delle sostanze è gravemente nocivo per la salute», pur ritenendo che alcune, come le droghe leggere, possano aumentare la capacità lavorativa e insieme a quelle sintetiche migliorino la resistenza alla fatica, a differenza di alcol e psicofarmaci. In molti pensano che l'uso di droghe pesanti e sintetiche facciano correre rischi all'interessato e ai compagni di lavoro. Sono al corrente del consumo crescente di droghe in fabbrica, o per conoscenza diretta, o per lo spaccio evidente, le siringhe abbandonate, i furti, l'eccesso di assenze per malattia, qualche episodio di violenza. Solo il 21% degli intervistati esclude che nella sua azienda si consumino sostanze stupefacenti. Un dato allarmante su cui riflettere è segnalato da un intervistato su due: chi si fa si infortuna di più. Il 50% sostiene che chi si droga è «una persona normale».
L'altro dato che non deve sorprendere è che il consumatore «non si ritiene tossicodipendente» (44,9%). Per il 77,3% del campione, infine, «le imprese dovrebbero avere un programma di lotta contro la droga».
Qualche mese fa, nel terzo stabilimento meridionale della Fiat per importanza, quello di Cassino, fu realizzato un video con un operaio intervistato di spalle che raccontava il consumo di droga durante il turno di notte. Diceva molte verità, e proponeva qualche certezza di troppo e troppo politicamente corrette: ci si fa di cocaina solo per resistere a un lavoro altrimenti insopportabile. E' così, ma non è solo così. Ne parleremo nelle prossime puntate. Finora abbiamo indagato solo grandi fabbriche metalmeccaniche, anzi Fiat, perché è più facile stabilirvi relazioni e perché il tasso di vent'enni è altissimo. Non si creda però che si tratti di un fenomeno circoscritto a queste realtà. In tutti i settori dell'industria e dei servizi il consumo della cocaina è drammaticamente alto e crescente. Lo è nei lavori faticosi, come nell'edilizia, nei lavori ripetitivi, in quelli che prevedono il rapporto con il pubblico. Lo è soprattutto tra i giovani e i precari. C'è chi pensa che ci sia un rapporto tra la diffusione delle droghe e la riduzione dei conflitti sul lavoro. Ipotesi, naturalmente, tutte da verificare.
(2/continua)
Inchiesta Cresce la diffusione delle droghe, da Taranto a Maranello. Terza puntata
Tra fatica e coca, operai alla catena
Il grande rimosso Le aziende oscillano tra silenzio e repressione, sindacato in difficoltà. A rischio la sicurezza sul lavoro: si svaluta il salario, si svaluta la vita
Loris Campetti
Ancora metalmeccanici, ancora droghe. «Hai deciso di metterci in mezzo?», mi chiede con tono scherzoso ma anche preoccupato un delegato della Fiom. La verità è che va reso onore al coraggio di questa categoria, e al suo sindacato più rappresentativo: non è facile mettere in piazza problemi come questi che costringono ad aprire una discussione a tutto campo, sul rapporto con le nuove generazioni di lavoratori e di esse con il lavoro, il conflitto, il sindacato, sul ruolo stesso dei delegati sindacali, le Rsu. Non tutti sono disposti ad aprire questo libro doloroso perché parla di sofferenze dei giovani, nel lavoro come nella vita, una vita alla giornata, senza investimenti sul futuro. Parla di solitudini operaie, cioè di quella classe che liberando sé stessa avrebbe dovuto liberare l'umanità. Raramente, invece, «la classe» è apparsa incatenata come oggi, alla linea di montaggio innanzitutto. E poi a una nuova povertà, con salari che continuano a perdere valore dentro un lavoro non più riconosciuto socialmente. Prigioniera, infine, di una cultura dominante televisiva, in cui all'emancipazione individuale e collettiva si sostituisce l'emulazione dei comportamenti e consumi di chi «ce l'ha fatta», magari del padrone. E il conflitto, che «naturalmente» dovrebbe essere agito nei confronti di chi ti sfrutta, si scarica invece contro i soggetti socialmente più deboli.
La cessione del quinto
Occuparsi di droghe sul lavoro aiuta a scoprire meglio la materialità della condizione operaia. Di chi si è già mangiato il 70% del Tfr per l'acquisto della casa, di chi ha ceduto un quinto dello stipendio per attivare un mutuo, magari per comprare l'automobile nuova o la tv al plasma, commenta un vecchio operaio bergamasco. E via di quinto in quinto finché dello stipendio non resta nulla, un pezzo alla volta è finito in tasca ai moderni strozzini, finanziarie e banche che si fanno pagare il 13% di interessi sui prestiti. Sempre che tu abbia un contratto a tempo determinatato, se sei un precario non puoi concederti neanche il lusso di farti succhiare lo stipendio. Eccola, la nuova classe operaia in carne e ossa.
Concludendo i lavori della conferenza nazionale d'organizzazione della Fiom a Cervia, il segretario generale Gianni Rinaldini ha raccontato un paese inquietante segnato dagli effetti di una globalizzazione selvaggia che spinge gli operai a competere tra di loro. La crisi del lavoro, amplificata dalla sua frantumazione, fa saltare un modello logorato di rappresentanza sindacale e sociale. In questo contesto opera la spinta delle imprese allo smanetellamento della contrattazione collettiva, per sostituirla con rapporti ad personam con i singoli lavoratori. All'interno dell'individualizzazione del rapporto con il lavoro e con il padrone, si inserisce la massiccia e crescente diffusione delle sostanze stupefacenti in fabbrica, nei cantieri edili e navali, nei servizi. «Che altro deve accadere? Se il problema è di queste dimensioni - ha detto Rinaldini in riferimento all'inchiesta del manifesto - dobbiamo aprire una discussione tra noi e con i delegati». Anche questa è una scelta coraggiosa, sapendo che la rottura del silenzio scatena reazioni pericolose da parte delle aziende, che o non sanno quel che succede nelle loro fabbriche, o più verosimilmente fingono di ignorarlo. Quando la verità s'impone, il passaggio dalla rimozione alla repressione viene spontaneo ai dirigenti d'azienda, un fatto di dna. Ed ecco allora che dai delegati si pretenderebbe la delazione, quando non si passa direttamente alla violazione della legislazione che tutela la privacy dei lavoratori: alcune piccole aziende hanno tentato di imporre ai dipendenti o agli aspiranti tali le analisi delle urine per verificare l'eventuale consumo di sostanze. Si può capire il comunicato dei delegati Fiom della Sevel Val di Sangro che, pur aggrappandosi a una lettura un po' riduttiva della diffusione di cocaina nel loro stabilimento, ne ammettono l'esistenza e anzi denunciano le loro ripetute quanto inascoltate richieste alla direzione aziendale di affrontare il problema «con serietà e trasparenza, senza criminalizzazione di chi vive questa condizione».
Un aspetto preoccupante, segnalato da un'inchiesta commissionata dalla Regione Basilicata di cui ha riferito il manifesto di venerdì scorso, è legato al rischio che il consumo di droghe possa provocare un abbassamento dei livelli di sicurezza e, di conseguenza, un aumento degli infortuni sul lavoro. Me ne parla un operaio di un'acciaieria (ci si consenta la genericità del riferimento, ampiamente giustificata dalla delicatezza della questione e dal rischio che corre chi prova a metterci le mani): qualche settimana fa si è verificato un grave infortunio, per fortuna non mortale, a una macchina. Nelle tasche dell'operaio ferito sono state trovate alcune bustine di cocaina. In un'altra fabbrica di peso, un delegato ha chiesto un incontro con il responsabile del personale per denunciare la diffusione della cocaina, mosso dalla preoccupazione che ad essa sia connesso un possibile aumento degli infortuni. «L'azienda ha finto di cadere dalle nuvole. I casi sono due: o non controllano la fabbrica, e sarebbe gravissimo, oppure fanno i finti tonti per evitare ricadute sull'immagine».
Il consumo di droghe (cocaina in particolare) cresce con l'abbassamento dell'età media dei lavoratori e con lo spezzettamento del ciclo produttivo, accompagnato dalla terziarizzazione di pezzi di produzione e servizi e dal lavoro in affitto, che fanno convivere nello stesso posto di lavoro imprese e forme contrattuali assai diverse. Per i delegati è sempre più difficile controllare o addirittura conoscere l'insieme, il che rende più fragile lo stesso intervento sindacale. Se i giovani in molte realtà assumono coca, il fenomeno dell'alcolismo è legato tradizionalmente ai lavoratori ultraquarantenni. Dal Veneto all'Emilia quest'ultimo fenomeno è particolarmente diffuso, come confermano alcuni delegati della Bassa reggiana. In Emilia mi raccontano di operai allontanati per ubriachezza: è il caso della ex Landini a Fabbrico, nel Reggiano, dove il consumo di cocaina è limitato ad alcuni casi concentrati nel turno di notte: «Canne a go-go, ma roba pesante poca». Il fenomeno è comunque abbastanza contenuto e sotto controllo, grazie anche a una rete efficiente di servizi nel territorio, figli del modello sociale emiliano. Qui, come in altri stabilimenti della regione, sono moltissimi i giovani assunti dal Mezzogiorno d'Italia e sbattuti in un'area geografica dove la vita è carissima e una casa in affitto costa poco meno dell'intero stipendio. Campare con mille euro al mese o poco più non è facile, non consente di costruirsi un futuro e la vita si brucia sulla linea di montaggio giorno per giorno. Alla ex Landini lavorano anche 70-80 indiani. Non bastano i menù differenziati per costruire una buona convivenza, tra italiani e immigrati extracomunitari, tra emiliani e meridionali, tra giovani e anziani. Persino nel consumo delle sostanze i comportamenti sono differenziati.
In una grande acciaieria come l'Ilva di Taranto - tra diretti e indiretti oltre 17 mila lavoratori, le dimensioni di una cittadina di provincia - si può trovare di tutto, mi raccontano, «è una specie di supermercato in cui puoi comprare anche cocaina. Sta diventando un problema in uno stabilimento in cui è pericoloso anche camminare, figuriamoci lavorare all'altoforno. Devi essere lucido, attento, sennò rischi di farti male e fare del male ai tuoi compagni. Pensa all'attenzione a cui è chiamato chi lavora sul carroponte e sposta una siviera contenente 300 tonnellate di metallo liquido». Chi racconta queste cose è preoccupato per gli effetti delle droghe consumate sul lavoro, e lo è anche per il rischio che aprire questo capitolo possa fornire «un alibi ai padroni, pronti a ripetere la solita canzoncina: gli infortuni? Colpa della distrazione degli operai. E' un imbroglio, perché le responsabilità dei morti e dei feriti sul lavoro sono degli imprenditori, dei ritmi insopportabili, della non applicazione della normativa sulla sicurezza, dell'organizzazione del lavoro». Detto questo, aggiunge un secondo operaio, «non dobbiamo nascondere le nostre di responsabilità». Ma la riduzione del potere di controllo delle Rsu, sottoposte all'attacco e all'emarginalizzazione da parte degli imprenditori, la fatica che fanno i Rappresentanti sindacali per la sicurezza ad assolvere al loro ruolo, troppo spesso osteggiato dalla controparte, sono ostacoli alla costruzione di un modo di lavorare meno pericoloso. E' la solita storia, «per i padroni contano solo la produzione e il profitto».
Li riconosci dal cambio d'umore
Dai fumi e dal fuoco dell'altoforno passiamo alla griffe più prestigiosa del made in Italy, la Ferrari di Maranello. L'uso di sostanze, che una volta era connesso al mondo dorato della Formula 1, qui in fabbrica «si intuisce, anche senza vedere il tuo compagno che si fa un acido o chissà quali pastiglie, la cocaina c'è ma è meno diffusa, almeno al montaggio. Se sali di grado la musica cambia. L'hashish è diffuso tra i giovani, ma si fuma soprattutto nelle pause. Chi assume sostanze si riconosce per quel particolare stato di euforia che lo prende: ti accorgi che dopo una pausa il tuo compagno di lavoro ha cambiato stato d'animo». 2.800 dipendenti, la maggioranza impegnati nello stabilimento di Maranello e una piccola parte alla Scaglietti di Modena dove si saldano le scocche. Alla Ferrari si costruiscono anche i motori e si verniciano le scocche per la Maserati. «Il settore Corse, qualche centinaia di dipendenti, fa storia a sé. Ma nella produzione di serie il lavoro e la sua intensità, Maranello non è poi così diverso da Mirafiori. Così come il salario base che si aggira intorno ai 1.100 euro, a cui vanno aggiunti il premio di risultato (un buon contratto integrativo) e l'eventuale lavoro notturno o straordinario. In alcune aree come il montaggio dove si lavora su tre turni, l'80% dei dipendenti viene da sud. Questi ragazzi vengono su carichi di entusiasmo, prima di accorgersi che la fatica è tanta, i soldi pochi e la vita come gli affitti è carissima. Rapidamente arriva la disillusione, la frustrazione. Negli ultimi anni l'uso di sostanze è aumentato in diverse aree della produzione, soprattutto tra le ditte terze e durante il turno di notte. Il mercato per le rosse va alla grande, cresce la produzione e nell'arco di un paio d'anni la Ferrari prevede di estendere i tre turni su tutto lo stabilimento. Intanto aumenta la richiesta di lavoro straordinario. Mentre uno della mia generazione si è battuto e si batte per le otto ore, vedi dei ragazzi che fanno la fila per ottenere qualche ora di straordinario, al punto che i capi si permettono di discriminare, a te sì e a te no, dipende dalla dedizione; e così fanno vivere le ore di lavoro in più come una concessione benevola e non come un carico aggiuntivo di sfruttamento», dice sconsolato un operaio anziano che aggiunge: «Vedo ragazzi intimiditi a cui viene annullata la personalità, per loro il lavoro significa soltanto reddito. Allora capisci anche perché fanno gli straordinari o chiedono di lavorare di notte, per guadagnare e spendere di più. E si diffonde la droga con tutto quel che comporta, spaccio compreso».
La politica delle assunzioni massicce dal Mezzogiorno ha la conseguenza inevitabile di ridurre progressivamente il tasso di sindacalizzazione. E può anche succedere che la Fiom, l'organizzazione ampiamente maggioritaria in Ferrari, venga sconfitta a un referendum sulla turistica: «Vince chi punta tutto sui soldi, alla faccia della condizione lavorativa». (3/continua)
«Senza la speranza vince la cocaina»
Il dominio della competività Emilio Rebecchi analizza i comportamenti in fabbrica e le cause che fanno crescere il consumo. Migliorare le prestazioni è funzionale alla produttività La società è classista, se non hai soldi di famiglia per pagarti la dose spacci, rubi o ti prostituisci
Loris Campetti
Bologna
«Il carcerato almeno una speranza ce l'ha: quella di uscire dalla galera, per fine pena o tentando la fuga. Spesso si ha l'impressione che al giovane, al giovane operaio, sia negata anche la speranza di fuga. Se a un ragazzo togli la speranza di costruirsi un futuro gli hai tolto un diritto fondamentale». Il ragionamento di Emilio Rebecchi segue una logica stringente quanto disperante. Psichiatra, psicoanalista, attentissimo ai comportamenti giovanili e alle dinamiche sociali nei posti di lavoro, Rebecchi ha lavorato a molte ricerche e inchieste ed è a lui che chiediamo un aiuto per tentare di decodificare le ragioni che stanno dietro la spaventosa diffusione di sostanze stupefacenti nelle fabbriche, negli uffici, nei cantieri. Il consumo di droghe tra i lavoratori non rappresenta certo una novità, ma oggi sono cambiate le motivazioni, le modalità del consumo, le stesse sostanze assunte e soprattutto, è cambiata la dimensione del fenomeno. Lo incontriamo nel suo studio sulla collina bolognese.
«Io ho sempre apprezzato moltissimo Pantani. Mi ha colpito il ragionamento che faceva ancora prima di diventare un grande campione: 'io sono il più forte, diceva, ma se gli altri prendono le sostanze resto indietro. Bisognerebbe che tutti smettessero, e siccome questo non avviene sono costretto a prenderle anch'io'. Il ragionamento non fa una piega, ma così si alza il livello dello scontro. Conosco un gruppo di bolognesi che pratica il ciclismo per passione, diciamo che fanno cicloturismo. Lo sai che si bombano anche loro? Mica lo fanno per vincere, non c'è niente da vincere; lo fanno per competere, per reggere il livello degli altri. Per non lasciare adito a dubbi di sorta preciso subito che di questo gruppo non fa parte Romano Prodi». La competizione, il miglioramento delle prestazioni, sono i nodi centrali della chiave interpretativa che ci offre Rebecchi. Ma procediamo con ordine. «Io non criminalizzo la chimica: la chimica esiste, è utile in mille circostanze. Ma se la utilizzi per aumentare le tue prestazioni, sessuali, lavorative, persino per divertirti, allora vuol dire che c'è un problema. Intendiamoci, tanti artisti, poeti, scrittori hanno assunto droghe per curiosità, per conoscenza. Lo stesso Siegmund Freud. Ma stiamo parlando del Medio Evo. Oggi i ragazzi si drogano come noi si beveva il caffè o si succhiava il latte dalla mamma. Per loro farsi una striscia di coca o un'anfetamena è un fatto normale, persino ovvio. Senza alcuna solida motivazione il giovane diventa 'spontaneamente' consumatore. Incindono molto i modelli culturali (la competizione spinta all'esasperazione) e interviene un fatto imitativo. Così come da bambini si vuole andare al Burghy o al Mcdonald's perché lo fanno tutti a prescindere dalla schifezza che ti danno da mangiare, così qualche anno più tardi, con lo stesso atteggiamento, può capitare di farsi di cocaina. Questo segnala la presenza di un vuoto che spesso si tenta di riempire con la droga. E siccome la società è classista, se non hai soldi di famiglia, per pagarti la dose rubi, o spacci, o ti prostituisci».
Arriviamo al mondo del lavoro. Se con le categorie interpretative classiche si comprendono alcuni comportamenti 'devianti' nel sottoproletariato, è più difficile farsene una ragione quando il soggetto interessato è l'operaio di fabbrica. «Saltano le differenze etiche. Ammettiamo pure che in fabbrica a spingerti al consumo possa essere una condizione difficile, segnata dalla fatica. La fatica alla linea di montaggio, dove la durata della mansione che si ripete sempre uguale a se stessa è al di sotto del minuto, provoca effetti negativi sulla salute dell'operaio, dolori, lombalgie. Una situazione di questo tipo farebbe pensare che la sostanza adatta ad alleviare la condizione di sofferenza sia l'eroina che è un anestetico e dunque attenua il peso e le conseguenze di un lavoro faticoso. Invece sempre più spesso la droga assunta, anche in fabbrica, è la cocaina. La cocaina è un eccitante, serve ad aumentare la produzione». Le parole di Rebecchi sono confermate dal racconto di tanti operai che abbiamo intervistato: il picco produttivo spesso e volentieri si verifica durante il lavoro notturno, il terzo turno che è quello dove il consumo di cocaina è più alto, anche per una rarefazione dei controlli. Se ne deduce, chiedo a Rebecchi, che la cocaina è funzionale alla produzione e dunque è una 'droga di sistema'? «Negli anni Settanta l'uso di sostanze poteva avere una qualche connotazione antisistema, oggi è tutta interna, verrebbe da dire funzionale al sistema. Non vale solo per gli operai, vale per i manager, per gli sportivi». In fabbrica c'è chi sostiene che si riesce a convivere meglio con l'eroina che non con la cocaina... «E' verissimo, con l'aggravante che la cocaina ha un'azione sulle arteriole, può provocare microinfarti. Alla lunga ti brucia il cervello. Un effetto analogo può essere provocato dalle anfetamine di cui è quasi sempre sconosciuta la composizione».
Come si può intervenire rispetto a questo fenomeno, come si possono aiutare i giovani operai finiti nell'imbuto del consumo, in molti casi nello spaccio per potersi pagare la dose quotidiana? «La cosa che rende più difficile l'intervento è proprio la mancanza di motivazione sociale nella decisione di assumere sostanze, che non sia l'aumento della prestazione individuale e di conseguenza della produzione. Sei disarmato, anche gli strumenti tradizionali come la psicoanalisi sono spuntati. Ti può capitare di chiedere a un giovane paziente di fare delle libere associazioni, dopodiché a un certo punto ti domandi: ma che vuoi che associ questo poveraccio, se non ha un cazzo di idea nel cervello? Dico che ti senti disarmato perché se il giovane consumatore, che sia operaio o studente, non ha una motivazione, quando gli dici di smettere ti risponde semplicemente 'e perché? Mi piace'. Guarda che domani starai male, avrai delle conseguenze gravi sulla salute, gli contesti, ma ti accorgi che non glie ne frega niente. Il che vuol dire, lo ripeto, che nelle giovani generazioni c'è una caduta, una rinuncia a costruirsi un futuro, una prospettiva di vita». E la vita stessa perde di valore... «Senza ideali, non solo politici o religiosi ma semplicemente civili, si resta solo dentro una realtà durissima che non si sopporta più. Così si finisce per tornare all'infanzia, si regredisce allo stadio all'oralità. Vuoi dimostrare di essere più potente di chi ti sta vicino».
La scelta può essere individuale, ma un fenomeno di queste proporzioni assume inevitabilmente un carattere sociale. Dice Rebecchi: «La regressione è legata alla natura della società in cui viviamo, e l'aumento della prestazione individuale, in qualsiasi campo, risponde al comandamento della competitività». Alcuni operai, a conferma di quanto ci dice Rebecchi, ci hanno spiegato che ci si fa, e si convince anche il partner o la partner a tirare coca, prima del rapporto sessuale per migliorare le prestazioni. «E' la logica maschile classica di chi vuole dimostrare che ce l'ha più lungo, la sessualità si riduce all'aspetto penetrativo. Pensi che in un rapporto sia questo e solo questo a interessare la donna. E ti esalti perché una striscia di cocaina ti fa sentire più potente ma non sai, o non ti interessa sapere che col tempo quella roba ti renderà impotente».
Rientriamo in fabbrica. Alcuni operai sostengono che la cocaina aiuti la socializzazione con gli altri operai, oltre a migliorare la prestazione individuale. «Certo - risponde Rebecchi - ma è la socialità della colpevolezza, certo non è la socialità della condivisione. E' la denuncia estrema di una condizione di solitudine. E se in passato drogavi generazioni intere per mandarle a combattere e morire in guerra, oggi con la caduta dei valori le distruggi drogandole per farle produrre di più alla catena di montaggio». Rebecchi conclude il suo ragionamento tornando al concetto della mancata motivazione nell'assunzione di sostanze 'dopanti', da cui discende la mancata motivazione a smettere: «Il generale cinese Zhu De era dedito al consumo di oppio. Quando iniziò la Lunga marcia, prima di assumerne il comando fece una scelta, aveva una motivazione forte per smettere. L'unico luogo in cui era vietato il consumo dell'oppio era il fiume Yangtze, così salì su una barca che scendeva il fiume chiedendo al proprietario di non fargli mettere i piedi a terra per alcuni mesi, per nessuna ragione. Così, con una motivazione forte, vinse le sue due guerre». (4, fine)
Intervento
La Cgil e le droghe: le buone pratiche
Giuseppe Bortone *
«Se parliamo di sostanze psicoattive in generale, e non solo di alcune di esse non è vero che il consumo è più forte fra i giovani e i giovanissimi lavoratori; ce n'è per tutti, e a tutte le età; solo varia il tipo di sostanze». Chi parla è Corrado Mandreoli, responsabile dell'ufficio politiche sociali della Camera del lavoro di Milano: uno dei compagni che da anni si batte con il sindacato sulla difficile tematica che riguarda le droghe in rapporto al lavoro, e ai lavoratori. È una riflessione che sembra abbastanza diversa da quella che proponeva Loris Campetti (in sintesi: la cocaina, i giovani operai, la fabbrica) nella sua recente, interessantissima inchiesta sul tema, affrontato in particolare alla Fiat Sevel di Atessa (Abruzzo) e alla Fiat Sata di Melfi (Basilicata). Decisamente polemico con l'approccio suggerito da Campetti ma per ragioni diverse rispetto a quelle di Mandreoli, era il comunicato della Fiom uscito il 13 maggio, proprio fra la pubblicazione di una puntata e l'altra dell'inchiesta: «Non è vero che la metà dei lavoratori della Sevel sono tossicodipendenti» - recita infatti il comunicato che aggiunge, con una precisione e una cautela che su questo delicato terreno sono tutt'altro che scontate, «la presenza e l'uso delle droghe, come dell'alcolismo (un'aggiunta determinante e vedremo poi perché) vanno affrontate con serietà e trasparenza, senza criminalizzare i diretti interessati». Eppure, l'inchiesta di Campetti un grande, indubbio merito l'ha avuto: quello di portare, anche con la forza della provocazione il dibattito su «droga e lavoro» - in particolare sul «nuovo consumo di cocaina fra i lavoratori» fuori dalla cerchia dei più coraggiosi esperti del settore.
Questi ultimi proprio su questo terreno si misurano da anni, con fatica e discutendo anche molto con la Cgil: ma chi lo sapeva, fuori dai convegni e dai seminari con gli operatori Sert, con il 3° settore più avanzato e i quadri sindacali più «di frontiera»?
Un grande contributo, su questo terreno così difficile lo ha dato un inserto che proprio con il manifesto esce ogni mese, e si chiama Fuoriluogo. Proprio su Fuoriluogo, già nel giugno 2005 usciva una preziosa inchiesta sul boom della cocaina, sull'abbassamento dei prezzi e sulla sua diffusione in un'ampia fascia d'età e in tutti gli strati sociali.
Assai rilevante, tra gli altri, l'articolo di Grazia Zuffa («Lo sniffo da prestazione») nel quale si notava che in un grande e tipico Sert romano, gli utenti con problemi legati alla cocaina erano diventati sempre più numerosi a partire dal 2002/2003: precari ma non solo, giovani ma anche padri di famiglia, impiegati ma anche operai. È la grande sfida di fronte a cui si trovano i tredicimila lavoratori del settore dipendenze in Italia, un bel pezzo del welfare (con 7000 pubblici che trattano più di 150.000 utenti in un anno): le sostanze cambiano, come gli stili di consumo, il problema cresce mentre gli organici dei Sert restano al palo, e anche lì si moltiplicano i rapporti di lavoro precari. Ma, soprattutto, consumo di sostanze non vuol più dire necessariamente dipendenza o marginalità, mentre la cosa può continuare ad essere assai rischiosa, e non solo con eroina e cocaina: «quest'ultima si diffonde sempre più, ma certo non batte l'alcol e gli psicofarmaci, tanto legali quanto pericolosi» - ci dice ancora Mandreoli da Milano. «Lavoratrici e lavoratori assumono di tutto e noi sindacalisti - aggiunge - dobbiamo lottare anche contro gli infernali luoghi comuni della televisione e del falso buon senso ('l'alcol non mi farà poi così male', 'gli psicofarmaci me li prescrivo io').
La sfida è alta, anche per noi sindacato. Hanno comunque un interesse le «buone pratiche» proposte dalla Camera del lavoro di Milano: questionari anonimi a tappeto, discussione sui risultati dei medesimi in assemblea, operatori Sert portati in fabbrica dai sindacalisti per informare tutti, e non per individuare le «pecore nere». Ci sono poi i risultati dell'inchiesta congiunta «Cgil-Forum-droghe» pubblicata a cura della Confederazione, e in parte centrata sul confronto - difficile e inedito - fra 30 lavoratori in terapia metadonica e 15 rappresentanti sindacali appartenenti alle medesime aziende (di Mestre, del Mugello e di Faenza). È un campione ridotto, ma significativo, e ci dice in sintesi che se il delegato è formato in modo nuovo e «sa ascoltare», il lavoratore con il problema si fida, si apre, vede uno spiraglio. Senza facili ottimismi (non è proprio il caso), bisogna dire che anche questo potrebbe essere quello che Bruno Trentin chiamo per primo, 17 anni fa, «il sindacato della persona».
* resp. politiche delle tossicodipendenze della Cgil Nazionale
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Articoli usciti su “il manifesto” del 26 giugno ‘08
LAVORO
Nella polvere del cantiere
Ciro, delegato per anni in un cantiere per l'alta velocità nel nord, racconta la fatica, gli infortuni, l'incrocio di nazionalità, culture e droghe. Alcol e cocaina, «un modo per combattere nostalgia e solitudine tra i muratori deportati»
LORIS CAMPETTI
NAPOLI
In condizioni normali, dal tavolino del bar in cui Ciro ci racconta la sua storia si dovrebbe vedere la sagoma del Vesuvio. Ma il panorama metropolitano è notevolmente cambiato negli ultimi mesi, ora si vedono - e si sentono - soltanto due cumuli giganteschi di immondizia che sommergono gli ormai inutili cassonetti. Tra i due vesuvi di mondezza, a cento metri dall'ospedale, uno squarcio lascia intravedere la strada brulicante di motorini. Ciro, per anni delegato sindacale in un cantiere per l'alta velocità «nel settentrione», neanche ci fa più caso, ma il suo racconto comincia con parole amare: «Ho lavorato dieci anni in Italia». Come? «Certo, questa non è Italia. Qui ci sono mille risorse ma il lavoro manca. Il lavoro pulito, intendo. Qui, chi si aggiusta a faticare mangia, chi non lavora mangia e beve».
Non è facile trovare qualcuno disposto a raccontare il rapporto tra alcol, droghe e lavoro nell'edilizia. Con un po' di buona volontà e determinazione eravamo riusciti a offrire ai lettori uno spaccato sulle fabbriche metalmeccaniche, dove fatica, ripetitività delle mansioni, solitudine, precarietà nel lavoro e nella vita cementano la strada su cui transitano tir di cocaina. Ma gli operai metalmeccanici hanno una tradizione di trasparenza, di condivisione di lotte, sofferenze e passioni e una plurisecolare storia sindacale. Per questo è stato meno difficile farsi raccontare la presenza crescente del terzo incomodo, le «sostanze», a cavallo tra capitale e lavoro. Nell'edilizia la storia è diversa, ma alla fine una testimonianza generosa siamo riusciti a strapparla. Tra l'immondizia, in una città dell'area vesuviana, ci accoglie Ciro, Rls e Rsu della Cgil. Lo chiamiamo così, un nome tipico e soprattutto breve, per usare il criterio adottato da Massimo Troisi.
Ciro è serramentista. Da quando ha chiuso il cantiere per l'alta velocità è tornato al suo paese per veder crescere i due bambini che «praticamente non ho visto nascere, neanche c'ero a festeggiare i primi compleanni». Lasciata «l'Italia», adesso si aggiusta da muratore, precario e al nero, poi dalle 18 a mezzanotte arrotonda un mezzo salario «variabile» consegnando le pizze a domicilio. Ce la fa, in qualche modo, ma siccome un affitto non potrebbe permetterselo vive, con moglie e figli, dai genitori. Ha già 24 anni di lavoro sulle spalle, avendo iniziato da bambino a 11 anni «ma il diploma di terza media me lo sono preso». L'emigrazione inizia presto, ad Ancona in un appalto della Fincantieri. Ciro porta su la moglie per un po' di mesi, poi lei resta incinta e torna al paese a partorire. I soldi «bastavano per i pannolini e poco altro». Un primo ritorno sotto il Vesuvio, mobilità e disoccupazione. Un periodo di lavoro come facchino e di nuovo, valigia alla mano, a settentrione. All'acciaieria di Terni, un subappalto, un po' di nero; serramentista al paese «in regola ma par quattro soldi» e allora Milano, al nero; Perugia per un anno e mezzo da muratore. Finalmente, l'assunzione nel cantiere dell'alta velocità, dall'estate del 2001 fino a chiusura cantiere, nel 2005.
«C'era di tutto, brava gente e malamente. Operai di tutte le regioni del mezzogiorno e del centr'Italia, tanti rumeni e portoghesi, marocchini, tunisini, algerini, bengalesi. Molti giovani arrivavano come interinali, poi venivano assunti dalle ditte per cui lavoravano. Eravamo un migliaio in tutto il cantiere. Si mangiava insieme, si dormiva insieme nelle baracche nel cantiere. Ho iniziato da carpentiere e dopo ho ricoperto altre mansioni. Sindacalmente partivo da sottozzero, quando la Fillea mi ha proposto di fare il delegato. Non pensavo che il sindacato fosse così importante per i lavoratori, è stata una bella esperienza battersi per difendere i diritti di noi operai. Per aiutare i rumeni a strappare un contratto italiano, senza più farsi succhiare 250 euro per l'affitto nelle baracche del padrone o in strutture vicine convenzionate». Mandiamo giù un sorso di caffé già zuccherato, ottimo gusto che quasi copre i miasmi della mondezza. «Un'esperienza agrodolce. Come Rls (rappresentante per la sicurezza) ne ho viste di tutti i colori: sicurezza zero, tanti infortuni, purtroppo anche qualche morto».
Ed eccoci alle droghe. «Erba, hashish, cocaina, pasticche di tutti i tipi, anche eroina. Le sostanze arrivavano il lunedì con gli operai dal sud, ma anche dalla città vicino al cantiere: pagamento anticipato al momento dell'ordinazione. Molta roba entrava in cantiere con quelli delle ditte d'appalto. Il fumo girava anche durante il lavoro, chi non s'è fatto una canna? Qualche tirata anch'io, lo ammetto, ma robaccia niente. Mai. La roba pesante veniva consumata dopo il lavoro, in baracca. E alcol a fiumi, soprattutto qualche meridionale, i portoghesi e i rumeni. Sai, ognuno portava qualcosa da casa: i rumeni la grappa, i portoghesi, i siciliani e i calabresi il vino e cibi a base di peperoncino. Da Puglia e Campania arrivavano le mozzarelle, visto che si viveva insieme come in caserma, ognuno portava il suo. Scherzi tanti, qualche rissa. Razzismo vero e proprio no, ma ogni tanto c'erano scontri etnici, soprattutto tra siciliani e calabresi, o tra sardi e napoletani. Occupandomi di sicurezza sono stato minacciato più volte, in una circostanza anche aggredito e di più non posso dire. Si lavorava dalle 7,30 del mattino alle 16,30 con la pausa per mangiare. Chi andava a genio ai capisquadra faceva un'ora di straordinario, qualcuno anche molto di più. Paga base, 1.200 euro al mese e fatica tanta, un caldo terribile, pesi eccessivi, ritmi stressanti. La vita e la salute messe a repentaglio quotidianamente. Ricordo dita tagliate, in particolare era successo a un rumeno e a un marocchino. Poi, che vuoi farci, la sera molti si facevano di droghe leggere, di alcol, chi aveva qualche euro in più andava giù di cocaina o di eroina, fumata però. Dell'alcol non parliamo, erano gli stessi capi a offrire da bere agli operai dopo i getti di cemento. La coca girava e veniva consumata di nascosto, non so dire quale percentuale di operai ne facesse uso. Se per un po' non arrivano le sostanze da fuori, si andava giù d'alcol. Ne ho visti di compagni lavorare ubriachi, puoi immaginare con quali rischi per sé e per gli altri. Alcuni operai che usavano droghe pesanti si sono, o sono stati, licenziati per andarsi a curare nei centri e nei Sert».
Tutti sapevano, a partire dai capi, «ma facevano finta di niente - continua Ciro - e a noi delegati toccava il compito di arginare il fenomeno. Ma mica potevo denunciare un operaio, un capofamiglia che butta sangue per portare il pane a casa. Quando uno metteva a rischio la sicurezza lo chiamavo da parte e fraternamente gli chiedevo di farsi un po' meno». In cantiere, dice Ciro, mai un blitz dei carabinieri. «Non so dire se ci fosse qualche rapporto tra l'uso di alcol, pasticche e cocaina e gli infortuni. Posso solo sospettarlo, in alcune circostanze».
Quando chiedo le motivazioni, le ragioni per cui tanti ricorrevano alle sostanze, Ciro mi guarda meravigliato, «la risposta è ovvia se non sei un marziano». Prima mi spiega che vita di merda era quella che si conduce in un grande cantiere: «Il lavoro in edilizia è tra i più usuranti, non arrivi mai alla pensione, tra mal di schiena, bronchiti, cecità, infortuni. Dopo il lavoro c'è solo la baracca, una partita a carte, la cena assieme. Come in caserma». Poi aggiunge: «Prova a vivere così, a stare quattro o cinque mesi senza poter tornare a casa a vedere i figli e la moglie, poi capisci cos'è che ti rode dentro. Poi capisci cos'è la nostalgia, quel senso di solitudine e quell'amaro in bocca che è più amaro della grappa rumena».
«Adesso come adesso non tornerei a lavorare in un cantiere lontano, spero di non esserci più costretto. Non ho potuto accompagnare i miei figli il primo giorno di scuola, ora voglio stare vicino a loro, guidarli sulla strada giusta. Voglio che vengano su puliti, e quaggiù non è facile, mi devi credere. Ma io sono convinto che è meglio avere i calli alle mani che le manette ai polsi». In manette, continua Ciro, «ci finisce la solita gente, i poveracci. Gli altri, quelli che fanno i soldi malamente, se la cavano sempre. Come i politici, che la pensione ricca non glie la leva nessuno. E' vero, qui governa la sinistra ma sono tutti uguali, è un magna magna generale. Per fortuna da noi c'è tanta mondezza ma poca camorra, prima sì che c'era. Invece, se fai cinque chilometri e vai a ***, vedi che non si muove foglia senza la lunga mano della criminalità».
S'è fatto tardi, è vero che è sabato pomeriggio e il sole picchia come a Ferragosto, ma anche oggi Ciro deve scappare, ci sono le pizze che aspettano di essere consegnate. Sale sul motorino, fa lo slalom tra i due vesuvi d'immondizia e scompare all'orizzonte. NAPOLI
In condizioni normali, dal tavolino del bar in cui Ciro ci racconta la sua storia si dovrebbe vedere la sagoma del Vesuvio. Ma il panorama metropolitano è notevolmente cambiato negli ultimi mesi, ora si vedono - e si sentono - soltanto due cumuli giganteschi di immondizia che sommergono gli ormai inutili cassonetti. Tra i due vesuvi di mondezza, a cento metri dall'ospedale, uno squarcio lascia intravedere la strada brulicante di motorini. Ciro, per anni delegato sindacale in un cantiere per l'alta velocità «nel settentrione», neanche ci fa più caso, ma il suo racconto comincia con parole amare: «Ho lavorato dieci anni in Italia». Come? «Certo, questa non è Italia. Qui ci sono mille risorse ma il lavoro manca. Il lavoro pulito, intendo. Qui, chi si aggiusta a faticare mangia, chi non lavora mangia e beve».
Non è facile trovare qualcuno disposto a raccontare il rapporto tra alcol, droghe e lavoro nell'edilizia. Con un po' di buona volontà e determinazione eravamo riusciti a offrire ai lettori uno spaccato sulle fabbriche metalmeccaniche, dove fatica, ripetitività delle mansioni, solitudine, precarietà nel lavoro e nella vita cementano la strada su cui transitano tir di cocaina. Ma gli operai metalmeccanici hanno una tradizione di trasparenza, di condivisione di lotte, sofferenze e passioni e una plurisecolare storia sindacale. Per questo è stato meno difficile farsi raccontare la presenza crescente del terzo incomodo, le «sostanze», a cavallo tra capitale e lavoro. Nell'edilizia la storia è diversa, ma alla fine una testimonianza generosa siamo riusciti a strapparla. Tra l'immondizia, in una città dell'area vesuviana, ci accoglie Ciro, Rls e Rsu della Cgil. Lo chiamiamo così, un nome tipico e soprattutto breve, per usare il criterio adottato da Massimo Troisi.
Ciro è serramentista. Da quando ha chiuso il cantiere per l'alta velocità è tornato al suo paese per veder crescere i due bambini che «praticamente non ho visto nascere, neanche c'ero a festeggiare i primi compleanni». Lasciata «l'Italia», adesso si aggiusta da muratore, precario e al nero, poi dalle 18 a mezzanotte arrotonda un mezzo salario «variabile» consegnando le pizze a domicilio. Ce la fa, in qualche modo, ma siccome un affitto non potrebbe permetterselo vive, con moglie e figli, dai genitori. Ha già 24 anni di lavoro sulle spalle, avendo iniziato da bambino a 11 anni «ma il diploma di terza media me lo sono preso». L'emigrazione inizia presto, ad Ancona in un appalto della Fincantieri. Ciro porta su la moglie per un po' di mesi, poi lei resta incinta e torna al paese a partorire. I soldi «bastavano per i pannolini e poco altro». Un primo ritorno sotto il Vesuvio, mobilità e disoccupazione. Un periodo di lavoro come facchino e di nuovo, valigia alla mano, a settentrione. All'acciaieria di Terni, un subappalto, un po' di nero; serramentista al paese «in regola ma par quattro soldi» e allora Milano, al nero; Perugia per un anno e mezzo da muratore. Finalmente, l'assunzione nel cantiere dell'alta velocità, dall'estate del 2001 fino a chiusura cantiere, nel 2005.
«C'era di tutto, brava gente e malamente. Operai di tutte le regioni del mezzogiorno e del centr'Italia, tanti rumeni e portoghesi, marocchini, tunisini, algerini, bengalesi. Molti giovani arrivavano come interinali, poi venivano assunti dalle ditte per cui lavoravano. Eravamo un migliaio in tutto il cantiere. Si mangiava insieme, si dormiva insieme nelle baracche nel cantiere. Ho iniziato da carpentiere e dopo ho ricoperto altre mansioni. Sindacalmente partivo da sottozzero, quando la Fillea mi ha proposto di fare il delegato. Non pensavo che il sindacato fosse così importante per i lavoratori, è stata una bella esperienza battersi per difendere i diritti di noi operai. Per aiutare i rumeni a strappare un contratto italiano, senza più farsi succhiare 250 euro per l'affitto nelle baracche del padrone o in strutture vicine convenzionate». Mandiamo giù un sorso di caffé già zuccherato, ottimo gusto che quasi copre i miasmi della mondezza. «Un'esperienza agrodolce. Come Rls (rappresentante per la sicurezza) ne ho viste di tutti i colori: sicurezza zero, tanti infortuni, purtroppo anche qualche morto».
Ed eccoci alle droghe. «Erba, hashish, cocaina, pasticche di tutti i tipi, anche eroina. Le sostanze arrivavano il lunedì con gli operai dal sud, ma anche dalla città vicino al cantiere: pagamento anticipato al momento dell'ordinazione. Molta roba entrava in cantiere con quelli delle ditte d'appalto. Il fumo girava anche durante il lavoro, chi non s'è fatto una canna? Qualche tirata anch'io, lo ammetto, ma robaccia niente. Mai. La roba pesante veniva consumata dopo il lavoro, in baracca. E alcol a fiumi, soprattutto qualche meridionale, i portoghesi e i rumeni. Sai, ognuno portava qualcosa da casa: i rumeni la grappa, i portoghesi, i siciliani e i calabresi il vino e cibi a base di peperoncino. Da Puglia e Campania arrivavano le mozzarelle, visto che si viveva insieme come in caserma, ognuno portava il suo. Scherzi tanti, qualche rissa. Razzismo vero e proprio no, ma ogni tanto c'erano scontri etnici, soprattutto tra siciliani e calabresi, o tra sardi e napoletani. Occupandomi di sicurezza sono stato minacciato più volte, in una circostanza anche aggredito e di più non posso dire. Si lavorava dalle 7,30 del mattino alle 16,30 con la pausa per mangiare. Chi andava a genio ai capisquadra faceva un'ora di straordinario, qualcuno anche molto di più. Paga base, 1.200 euro al mese e fatica tanta, un caldo terribile, pesi eccessivi, ritmi stressanti. La vita e la salute messe a repentaglio quotidianamente. Ricordo dita tagliate, in particolare era successo a un rumeno e a un marocchino. Poi, che vuoi farci, la sera molti si facevano di droghe leggere, di alcol, chi aveva qualche euro in più andava giù di cocaina o di eroina, fumata però. Dell'alcol non parliamo, erano gli stessi capi a offrire da bere agli operai dopo i getti di cemento. La coca girava e veniva consumata di nascosto, non so dire quale percentuale di operai ne facesse uso. Se per un po' non arrivano le sostanze da fuori, si andava giù d'alcol. Ne ho visti di compagni lavorare ubriachi, puoi immaginare con quali rischi per sé e per gli altri. Alcuni operai che usavano droghe pesanti si sono, o sono stati, licenziati per andarsi a curare nei centri e nei Sert».
Tutti sapevano, a partire dai capi, «ma facevano finta di niente - continua Ciro - e a noi delegati toccava il compito di arginare il fenomeno. Ma mica potevo denunciare un operaio, un capofamiglia che butta sangue per portare il pane a casa. Quando uno metteva a rischio la sicurezza lo chiamavo da parte e fraternamente gli chiedevo di farsi un po' meno». In cantiere, dice Ciro, mai un blitz dei carabinieri. «Non so dire se ci fosse qualche rapporto tra l'uso di alcol, pasticche e cocaina e gli infortuni. Posso solo sospettarlo, in alcune circostanze».
Quando chiedo le motivazioni, le ragioni per cui tanti ricorrevano alle sostanze, Ciro mi guarda meravigliato, «la risposta è ovvia se non sei un marziano». Prima mi spiega che vita di merda era quella che si conduce in un grande cantiere: «Il lavoro in edilizia è tra i più usuranti, non arrivi mai alla pensione, tra mal di schiena, bronchiti, cecità, infortuni. Dopo il lavoro c'è solo la baracca, una partita a carte, la cena assieme. Come in caserma». Poi aggiunge: «Prova a vivere così, a stare quattro o cinque mesi senza poter tornare a casa a vedere i figli e la moglie, poi capisci cos'è che ti rode dentro. Poi capisci cos'è la nostalgia, quel senso di solitudine e quell'amaro in bocca che è più amaro della grappa rumena».
«Adesso come adesso non tornerei a lavorare in un cantiere lontano, spero di non esserci più costretto. Non ho potuto accompagnare i miei figli il primo giorno di scuola, ora voglio stare vicino a loro, guidarli sulla strada giusta. Voglio che vengano su puliti, e quaggiù non è facile, mi devi credere. Ma io sono convinto che è meglio avere i calli alle mani che le manette ai polsi». In manette, continua Ciro, «ci finisce la solita gente, i poveracci. Gli altri, quelli che fanno i soldi malamente, se la cavano sempre. Come i politici, che la pensione ricca non glie la leva nessuno. E' vero, qui governa la sinistra ma sono tutti uguali, è un magna magna generale. Per fortuna da noi c'è tanta mondezza ma poca camorra, prima sì che c'era. Invece, se fai cinque chilometri e vai a ***, vedi che non si muove foglia senza la lunga mano della criminalità».
S'è fatto tardi, è vero che è sabato pomeriggio e il sole picchia come a Ferragosto, ma anche oggi Ciro deve scappare, ci sono le pizze che aspettano di essere consegnate. Sale sul motorino, fa lo slalom tra i due vesuvi d'immondizia e scompare all'orizzonte.
SOSTANZE
«Cocaina sul lavoro per essere normali»
Lo.C.
Gli operatori dei centri per le tossicodipendenze segnalano un forte cambiamento dell'utenza dei servizi. Rispetto al passato, quando i frequentatori erano prevalentemente eroinomani, oggi nei Ser.t (vedi la scheda qui sopra) vanno a curarsi soggetti più giovani con problemi legati al «policonsumo», come alcol e cocaina. Il 60% degli assistiti sono lavoratori dipendenti, quando vent'anni fa la percentuale maggiore era costituita da disoccupati. Ce ne parla Lorena Splendori che coordina il Gruppo nazionale operatori dei Ser.t della Cgil. La composizione sociale e professionale è molto mista, si va dagli operai ai piloti d'aereo.
Una differenza importante, che conferma le testimonianzeraccolte sul manifesto tra i giovani metalmeccanici, tra il vecchio eroinomane e il giovane cocainomane è che il primo viveva la droga come evasione, in modo trasgressivo, persino con qualche valenza antisistema. Oggi, il giovane operaio che «tira» vuole «chiamarsi dentro, non fuori. Ci racconta di un retroterra così pesante che per star bene si fa di sostanze». Per lavorare, per divertirsi, per fare l'amore, «semplicemente per vivere. E' un segno della fatica di vivere in epoca di passioni tristi», ci dice Lorena. In altre parole, «non cercano il cambiamento, questi giovani operai cercano di farcela nella normalità della vita e della condizione lavorativa date». Nelle sostanze «cercano la normalità per costruire relazioni, non lo sballo».
Droga non più in chiave antisistema ma tutta interna al sistema che genera problemi sociali e propone essa stessa la soluzione, che poi non è una soluzione ma un'integrazione a valori e culture ieri distanti dal mondo del lavoro. L'eroina circola ancora, o meglio circola di nuovo. Tendenzialmente fumata come analgesico, per il suo effetto curante da parte di chi comincia ad accusare le conseguenze devastanti della cocaina. «Dietro le quote di sostanze immesse sul mercato - ci dice Lorena - c'è una strategia precisa. A noi risulta che dopo il boom della cocaina, in alcuni paesi come l'Albania, si stiano accumulando quantitativi enormi di eroina. Temo il giorno in cui decideranno di buttarla sulla piazza, e questo avverrà quando la cocaina, che oggi circola a prezzi molto bassi, avrà sortito i suoi effetti sui consumatori che quando non ce la fanno più cominciano a usare l'eroina, praticamente come medicinale, direi automedicante».
Gli utenti che arrivano ai Ser.t sono già a «un consumo problematico se non alla dipendenza vera e propria. Chi inizia con la cocaina in fabbrica solo più tardi arriva ai servizi, quando non riescono più a gestire il rapporto con la sostanza. Per questo li conosciamo meno». L'età media, ma parliamo già di consumo problematico, si abbassa ai trent'anni ma si inizia molto prima. Gli eroinomani invece sono sessantenni, «siamo già in presenza di casi di terze generazioni che arrivano ai Ser.t, prima il figlio e ora il nipote dell'eroinomane classsico».
C'è anche, e ancora, chi arriva all'uso delle droghe per reggere lavori particolarmente pesanti. Su questo, come su tutti gli altri aspetti e motivazioni e sulla crescita preoccupante del consumo tra i lavoratori, «il sindacato dovrebbe indagare di più». Gli operatori dei Ser.t registrano differenti composizioni sociali in relazione al territorio in cui operano. Per fare solo un esempio, se a Lanciano la metà degli utenti è costituita da operai della vicina Fiat-Sevel, a Napoli in maggioranza sono ancora disoccupati. Molto spesso l'uso di sostanze non è consapevole, almeno finché non diventa problematico. Per questo gli operatori dei Ser.t mettono l'accento sulla prevenzione, prima ancora che sulla cura. Nel 2002 hanno varato una «Carta dei diritti dei cittadini, degli utenti, delle operatrici e degli operatori». La sfida è far convivere chi vive nell'area in cui c'è il servizio e garantirgli la sicurezza, gli utenti e chi lavora per la loro salute. Una sfida non semplice, anche in relazione al fatto che alcuni interventi esterni vorrebbero vedere trasformato il servizio di cura in servizio di repressione. Al Ser.t si arriva naturalmente per scelta libera, «come dovrebbe essere sempre», ma anche per decisione della prefettura che in base alla legge 309 invia nei centri persone fermate, «magari perché presi con uno spinello». Si tratta di interventi coatti, che ben poco responsabilizzano l'utente e al tempo stesso rischiano di snaturare il servizio.
La legge sulla privacy, che dovrebbe tutelare i lavoratori da controlli impropri per verificare l'eventuale consumo di sostanze, ha le sue eccezioni. In base al decreto varato dal ministro Livia Turco che rende attuativa una legge preesistente, le aziende possono richiedere analisi specifiche per alcune tipologie di lavori, per esempio i piloti e gli autisti.
venerdì 18 luglio 2008
A Genova per non dimenticare
A Genova per non dimenticareA Genova per provare a leggere ciò che è accaduto 7 anni fa e ciò che accade oggi nel nostro Paese con le lenti della verità e della democrazia.
A Genova per continuare a chiedere verità e giustizia per Carlo e per i ragazzi e le ragazze della Diaz e di Bolzaneto. Perché venga accertata, anche processualmente, la catena di comando che ha portato a quei massacri e perché venga riconosciuto colpevole anche di ha deciso e ordinato, non solo chi ha eseguito pestaggi e violenze. E perché vengano accertate e affermate non solo le responsabilità penali di quelle violenze ma anche le responsabilità –forse assai più “gravi” – politiche che a quei fatti hanno portato.
A Genova perché in queste giornate di luglio non si commemora un morto, ma perché nel ricordo di una vita spezzata, assassinata si prova a costruire un possibile futuro diverso.
A Genova perché le ragioni per le quali Carlo si trovava a Piazza Alimonda sono vere anche oggi, sono vere per noi.
A Genova Sinistra Democratica ci sarà per ricordare, per ascoltare, per dire, per cantare, per ricostruire, per lavorare assieme.
Claudio Fava
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Le ferite di Genova non sono ancora sanate
di Nuccio Iovene*Dunque la ferita, anzi le ferite di Genova procurate in occasione di quel fatidico G8del 2001 sono destinate, dopo la sentenza su Bolzaneto dell’altro giorno, a rimanere aperte. Certo, nessuna sentenza avrebbe potuto restituire la vita a Carlo Giuliani e lenire il dolore per la sua scomparsa, ma uno Stato in grado di dimostrarsi duro ed inflessibile con se stesso prima che con gli altri, e onesto nel riconoscere pienamente i propri errori (ed orrori..), ne avrebbe guadagnato in credibilità e consentito una via d’uscita dignitosa dall’incubo delle giornate di Genova del luglio 2001.
Da cittadino ero a Genova nei giorni del Social Forum, e da parlamentare ho fatto parte del Comitato Bicamerale d’indagine che nell’estate del 2001 approfondì gli avvenimenti tragici che visse la città e, attraverso le sue strade, il mondo intero. Genova era irriconoscibile: blindata e svuotata, senza i suoi ritmi, colori, rumori naturali. Frutto di una sciagurata campagna allarmista che, come benzina sul fuoco, fece crescere di giorno in giorno, e di ora in ora, la tensione ed il rischio di provocazioni, come poi purtroppo avvenne. Berlusconi aveva da poco vinto le elezioni ed il centrodestra aveva deciso di adoperare la mano pesante nei confronti del movimento. Esponenti del centrodestra, parlamentari e Ministri, stavano dove non dovevano stare (la sala operativa di Genova da dove si dirigevano tutte le operazioni sul campo) e dicevano cose che non dovevano dire (quella presenza era stata annunciata nei giorni precedenti con queste motivazioni: "i parlamentari saranno in sala situazione in modo tale che nessuno potrà parlare di provocazioni da parte delle forze dell'ordine"). Fin dal venerdì 20 luglio si scelse senza motivo di attaccare manifestazioni pacifiche con lacrimogeni e cariche inutili seminando tensione e paura, invece di isolare e colpire i violenti, i cosiddetti “black block” che in più occasioni è sembrato avessero il campo libero in tanta parte della città. Poi le irruzioni, la notte del 21 luglio, nelle scuole Pertini – ex Diaz e Pascoli, con il carico di violenze gratuite e false prove costruite, così come emerso da numerose testimonianze, per giustificare l’operazione. Infine quel vero e proprio mostro giuridico rappresentato dalla trasformazione in carcere delle caserme di Bolzaneto e Forte S. Giuliano su cui anche un esponente del centro destra nel corso dell'indagine conoscitiva si espresse testualmente in questi termini: "sulla loro legittimità ho forti dubbi, un carcere non si può costituire occasionalmente: quelli si chiamano normalmente campi di concentramento". Il processo ha confermato racconti ed episodi raccapriccianti che le almeno 252 persone accertate lì transitate vissero in una sospensione del diritto e dei loro diritti. E si comprende l’accanimento con cui il centro destra (ed in particolare AN e Lega) hanno impedito al parlamento sia l’approvazione di una norma per introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura (così come prevede il diritto internazionale e ci obbliga la nostra adesione alla Corte Penale Internazionale) sia la costituzione di una Commissione Parlamentare di inchiesta sui fatti di Genova che facesse piena luce sulle responsabilità politiche di allora.
L’assenza di quella norma, non è un caso, è stata portata alla base di una sentenza che non ha reso giustizia alle vittime di quei giorni né allo stato di diritto del nostro Paese. Ecco perché le ferite di quel caldo luglio del 2001 resteranno ancora aperte.
*Componente la commissione bicamerale di indagine sui fatti di Genova
mercoledì 16 luglio 2008
Blog Tommaso Sabatini
nel mio blog
www.tommasosabatini.blogspot.com
trovate tutte (o quasi) le mozioni e le richieste fatte da me in Circoscrizione dall'inizio della legislatura.
Tommaso Sabatini
Coordinatore 3° Com.ne "Velino"
Capogruppo SinistraArcobaleno
tommo80@gmail.com
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martedì 15 luglio 2008
Non c'è tortura, non c'è accanimento. Si punisce chi esegue, si assolve chi decide
di Simone Sabattini*E' presto per dire se la sentenza del Tribunale di Genova che ha definito il primo grado del processo per i fatti avvenuti all'interno della caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001 abbia deciso che la tortura delle forze dell'ordine non è punibile in Italia. Sarà necessario leggere le motivazioni tra novanta giorni. Certo è che, prima di discutere il merito della decisione, le norme in vigore permettono in concreto l'applicazione di pene non superiori a due anni e mezzo al massimo, come tali quindi che non comportano con il carcere. Ciò, non è mai inutile ribadirlo, in quanto l'Italia non adempie al dovere di introdurre il reato di tortura.
Certamente però la sentenza di ieri, anche dalla semplice lettura del dispositivo, alcuni verdetti chiari li ha emessi: due in particolare. Da un lato sancendo l'esclusione delle aggravanti dall'aver agito con motivi abietti e con crudeltà ha dato un segnale inequivocabile su come lo Stato intende punire i propri pubblici ufficiali che infieriscono gratuitamente sugli arrestati. Per essere chiari ieri è stato affermato che non è stata usata la violenza sugli arrestati in modo abbietto in casi come questi - si tratta di stralci del capo di Imputazione a carico di Gaetano condannato ma senza l'applicazione dell'aggravante -
1. percuotere ripetutamente con pugni e calci un arrestato cagionando lesioni personali consistite nella fratture alle costole sinistre e costringerlo con tale atto violento a firmare contro la sua volontà gli atti relativi al suo arresto.
2. costringere, consentire o, comunque, non impedire che altri agenti non identificati costringessero un'arrestata a subire con violenza e contro la sua volontà il taglio di tre ciocche di capelli.
L'agente di custodia Amadei non ha agito seguendo motivi abietti nel
1. costringere persona custodita all'interno del sito penitenziario di Bolzaneto, che aveva appena accompagnato in bagno, a chinare la testa all'interno della turca.
2. incaricata della sorveglianza della cella ove erano custodite alcune arrestate in concorso con altri pubblici ufficiali appartenenti alla Polizia Penitenziaria, sottoporre a misure di rigore non consentite dalla legge le suddette arrestate costringendole a rimanere, senza plausibile ragione, numerose ore in piedi, con il volto rivolto verso il muro della cella ,con le braccia alzate oppure dietro la schiena , con le gambe divaricate, o in altre posizioni non giustificate costituenti ulteriore privazione della libertà personale .
per l'agente di custodia Incoronato è stata esclusa l'aggravante di aver agito in modo abietto quando:
1. agendo come esecutore in concorso con altri agenti non identificati nonché con il medico di servizio dr. Amenta Aldo, cagionava volontariamente lesioni personali (frattura alla costola) ad un detenuto colpendolo con un pugno al torace.
Non è invece crudele ciò per cui è stato condannato Pigozzi, ovvero afferrare con le due mani le dita della mano sinistra di una delle persone fermate, e poi tirando violentemente le dita stesse in senso opposto in modo da divaricarle , cagionando lesioni personali (ferita lacero contusa della lunghezza di cinque centimetri tra il terzo e quarto raggio della mano sinistra in corrispondenza delle due articolazioni metacarpofalangee), dalle quali derivava una malattia guarita in 50 giorni.
Si tratta di una decisione incomprensibile con gravi ripercussioni rispetto ad uno dei compiti che i giudici genovesi si erano assunti, cioè la determinazione di ciò che si può e non si può fare alle persone in custodia. Non c'è bisogno di aggiungere altro rispetto a questo se non che è indubbio che fatti come quelli di Bolzaneto sono gravissimi per il numero e l'occasione nella quale sono avvenuti, ma tutt'altro che rari nelle camere di sicurezza. Ora il segnale sarà interpretato come un via libera e questo è pericoloso per tutti.
L'altro punto critico che emerge dalla lettura del solo dispositivo è il rifiuto del Tribunale di accogliere la richiesta delle condanne sulla base della ricostruzione della catena di comando presente a Bolzaneto.
L'assoluzione da tutte le accuse del generale Doria della polizia penitenziaria, di Perugini e della Poggi della DIGOS di Genova e dei medici Toccafondi e Amenta limitatamente ai capi di accusa che erano basati sulla posizione di garanzia basata sulla superiorità gerarchica lasciano presagire questo esito.
Certamente sarà importante, come anche su tutte le altre tantissime assoluzioni, conoscere, grazie alle motivazioni, se i giudici abbiano escluso le responsabilità proprio ritenendo che i capi non dovessero evitare il compimento di gravi fatti ad opera dei sottoposti oppure se il tribunale si sia determinato così sostenendo la mancanza di elementi sufficienti per condannarli. Nel primo caso, dopo tante sentenze come questa in Italia, saremo di fronte ad un altro caso nel quale i giudici hanno scelto di non punire chi decide, ma solo chi esegue.
*Avvocato di Parte Civile
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