giovedì 6 novembre 2008
con gli USA che cambiano!
“Se vince Obama vado a vivere in America – dice semiserio mio figlio aspettando i dati – perché abolirà la pena di morte e ritirerà subito i soldati dall’Iraq”. Ha fatto anche lui notte fonda, come i suoi compagni di scuola, come le ragazze e i ragazzi ancora assonnati per le occupazioni contro il decreto della Gelmini. Davanti alla televisione fino a quasi il mattino, questa volta non per una partita di calcio, ma per aspettare una notizia, la buona notizia di una buona politica che finalmente può arrivare. Rifletto su quello che mi dice. Da quanto tempo la politica mondiale, planetaria, non ci innondava con una buona notizia? Ne abbiamo perso la memoria. E quando la notizia di una politica nuova, che può essere anche buona, viene dall’America vale di più. Vale di più perché sembrava in questi anni un gigante impazzito, un paese fallito, produttore di crisi. Finanziaria, economica, sociale, morale. I peggiori anni dell’America, quelli di Bush, e per quel che l’America ancora conta, i peggiori del pianeta. Gli anni della politica come menzogna, prima di tutto, fondati su quella ideologia performativa, la prima ideologia del post-moderno, che ha finito per abolire progressivamente il principio di realtà, confondere il vero con il falso, ponendosi al di là del bene e del male. E’ l’ideologia che, a partire dalla fine della guerra fredda e dunque dal crollo dell’altra ideologia, ha tentato di governare l’occidentalizzazione del mondo e ci ha portati dentro una bolla cosmica. La politica come menzogna. Delle armi di distruzione nucleare in Iraq, del titolo rischioso e dell’assicurazione per coprirsi dal rischio, dei mutui sbprime, dei bilanci militari e della spesa interna per armamenti, della deregolamentazione selvaggia dei mercati. L’America che stanotte volta pagina chiude forse il capitolo che ha sì come stolto e maldestro epigono George W. Bush ma che comincia all’inizio degli anni Ottanta con le ricette di Milton Friedman, frutto di quella teoria monetarista che Ronald Reagan inciderà nella carne viva della società statunitense, facendone pagare le spese ai poveri che sono cresciuti come mai prima e al ceto medio che si è impoverito come in nessun altro paese al mondo. La sua prima frase di capo di Stato è nota: “Lo Stato non è la soluzione dei nostri problemi, lo Stato è la causa dei nostri problemi”. In Europa l’aveva preceduto Margaret Thatcher con l’altra frase celebre: “La società non esiste, esistono gli individui”. George W. Bush le avrà rimosse entrambe nel momento preciso in cui per arginare il ritmo di due fallimenti bancari al giorno sottoscriveva il famoso piano finanziario da 700 miliardi di dollari, definito un piano “socialista” dal suo stesso entourage repubblicano. Obama, vincendo le elezioni, può chiudere questo capitolo della storia americana diventata storia del mondo negli ultimi decenni. Eredita una crisi finanziaria che ha come risvolto crudo della medaglia recessione e disoccupazione, casse dell’Unione quasi vuote, welfare ridotto all’osso, difficoltà a garantire pensioni e sanità, debolezza strutturale e quasi mancanza di strumenti d’intervento. Più di dieci milioni di senza lavoro, mezzo milione solo nel mese di settembre. Dovrà partire dal punto in cui i repubblicani, da Reagan a Bush, non sono mai giunti. Da quell’economia reale lasciata a lungo a sé stessa, quell’economia che non guarda solo alla necessaria trasparenza di Wall Street e alla ristrutturazione dei mutui, ma mette al centro la creazione di lavoro, l’assistenza sanitaria, la spesa sociale, il bene pubblico. Se è vero il paragone con la crisi del ’29, dovrà succedere, nel metodo di governo, qualcosa di simile. Dopo il crollo ci fu il welfare roosveltiano. Dopo Friedman, Reagan, Bush il Barak Obama che volta definitivamente pagina sarà quello che ci aspettiamo che sia se saprà riscrivere per l’America un nuovo contratto sociale. E da paese, gli Stati Uniti, direbbe Oscar Wilde, che stava morendo al di sopra delle proprie possibilità, tornare a rinascere.
Gianni Zagato
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